Chinese Asylums 24. Taichung, città di prostitute e vergini ...cui far la festa
by Georg Rukacs
Taichung è una città così. Se da questo posto, tra Sogo e la stazione, vado verso ovest, per esempio a Rt-Mart, che è un grande magazzino, anche alimentare, sempre aperto a qualunque ora, ci sono bodelli d’ogni genere dappertutto. Anche qui, tutt’attorno. Anche in altre direzioni. Non so altrove. Ma in questa città, che credo sia sul milione d’abitanti, è così. Bordelli d’ogni genere con mignotte d’ogni genere, da quel che posso inferire dall’esterno, non essendo mai entrato, ma alcuni sono proprio come sulla strada per cui qualcosa si intravvede anche solo passando.
Poi, come naturale contraltare, ci sono le vergini, o quelle tutta casa e marito, sempre che il marito, dopo anni e figli in gran numero, voglia ancora qualcosa. Ah, come dappertutto, ci sono anche le altre...
Come sempre, quando si parla in media, o per grandi generalizzazioni, la vera vita reale è poi quelle che capita a voi, in prima persona, nel vostro microcosmo.
L’ultimo, era uno di quei sabati sera in cui non t’aspetti nulla, sebbene io m’aspetti sempre qualcosa anche quando non si sa bene se poi qualcosa succederà davvero.
La giornata si trascina. Poi si riscalda, nel senso che ti sei finalmente fatto la barba, lavato, oltre ad avere finito le solite quotidianità sul web ed avere almeno ingranato qualcuna delle mille cose che ti eri ripromesso di fare, verso sera. Allora, per rompere il chiuso d’una stanza, d’un quartiere piccolo, del solito panorama ridotto e piatto, decidi di farti un giro in una di queste librerie cinesi che sono come biblioteche dove tutti, pure io, vanno a leggere più che a comprare.
Appena a ovest di qui. Pochi minuti in bici, eppure in zona del tutto diversa, lussuosa, credo già in quella che qui chiamano “piccola Europa” dati l’architettura ed il lusso.
Era proprio una pischelletta. Con dei calzoni corti come si usavano in Europa, per bimbi maschi, mezzo secolo fa. Di quelli che coprono, non di quelli che esaltino le cosce. Delle belle forme, comunque.
Io ero lì a leggere un libro, al secondo piano cinese che considera primo il pian terreno. La ho subito notata. Ha visto che l’avevo guardata e poi seguita con la coda degli occhi pur chino sul libro. Lei continuava a gironzolare, come d’una che o non cerchi nulla davvero o che non trovi quel che cerca. Io ero poi andato al quarto piano, quello delle lingue con letteratura soprattutto in inglese e materiali linguistici vari e di lingue differenti. E m’ero seduto non vicino a dove stanno i commessi, che è poi l’unico posto in cui ci si possa sedere a quel piano, salvo sedersi per terra come molti, anch’io talvolta, fanno a Taiwan.
Forse, perché era un posto riparato ed, a quell’ora e quel giorno, non c’era nessuno, la pischella aveva cominciato a ronzarmi attorno. In effetti lì, se ben ricordo, è più affollato la domenica a quell’ora, ormai oltre le 20. Aveva cominciato a ronzarmi attorno come fanno le cinesi, cioè fingendo di non vedermi e d’essere tutta concentrata su non so cosa. Poi, s’era seduta nel punto più distante da me, in quello spazio per sedersi, che è un modo di dirti che t’ha ben visto e che ti considera “pericoloso”. Tuttavia, ad un certo punto aveva cominciato a guardasi attorno come agitata da qualche cosa. Al che, l’avevo guardata diritta negli occhi, che aveva subito abbassato, come a chiederle se volesse qualcosa da me.
“Mi scusi,” aveva cinguettato “Lei è un insegnante di inglese?”
“No, non sono né insegnante né anglofono.” le risposi gelido.
...Intanto, per loro, lo straniero è comunque un “americano”...
“Ma sono sicura che lei può spiegarmi...”
“Fammi vedere”, le dissi.
Mentre guardavo quel libro di una femministra che lei aveva aperto proprio dove parlava di anticoncezionali ed aveva incontrato qualche parola latina, che ora usava come scusa per chidermi spiegazioni, mi chiese:
“Di, dove sei?”
Le dissi che ero austriaco. Non sanno neppure dove sia, nelle Cine. In realtà, stavo solo pensando come trovare il modo di farmela subito o più in là, sempre che lei ci fosse stata.
Era magrina, pelle bianchissima, aria distante. Tuttavia, con delle forme ed un modo di fare che mi eccitavano. Di quelle, insomma, che pur senza farlo vedere, pensano solo al cazzo anche se, da quelle parti, magari si limitano a toccarsi frenetiche fino al matrimonio verso i trent’anni ed oltre. ...e poi continuano a toccarsi pure nel matrimonio, sempre che duri.
Evidentemente, era lì perché non sapeva che fare il sabato sera. Aveva poi preso quel libro come scusa, senza neppure pensare che libro fosse. Dopo, l’aveva aperto a caso e l’aveva usato come pretesto per attaccare bottone. Della serie: “Aggancio per conversazione seriosa il sabato sera con un “americano” da cui non oserei mai farmi trombare sebbene ne avessi voglia e sarei poi corsa a toccarmi tutta le notte e tutti i giorni successivi pensando che cazzo grosso e lungo dovesse avere.” ...Ah, è il loro ragionamento standard... o uno dei loro ragionamenti standard.
La volli mettere in imbarazzo. Per cui le buttai lì crudo: “Interessante questo libro... ...ho capito... ...fai l’amore col tuo ragazzo e vuoi vedere come non restare incinta...”
Diventò più che rossa. Divento di tutti i colori. Mentre mi gettò li veloce: “Non ho ragazzi! E, quelle cose, qui non le facciamo! ...non siamo mica come voi!”
Allora, le presi la mano e mentre gliela baciavo: “Perdonami! Perdonami! Perdonami! Ne ero sicuro! Si vede che sei una vera e serissima taiwanese... ...l’ho fatto solo perché volevo vedere cosa mi rispondevi. ...sei così bella... ...perché non sposi me subito?!”
Ridivenne di tutti i colori, ma ora in modo differente. In più, era eccitata da quel contatto mio con la sua mano, con la sua pelle e lei, la sua, dunque, con la mia.
La libreria stava chiudendo.
“Ah, dovevo dirti di queste parole. Voi proprio saperlo che sono?”, le dissi mentre ci avviavamo verso l’uscita. Continuai: “Cosa fai ora... ...perché non continuaimo a parlare, o hai da fare?”
Con quel fare che hanno le cinesi, talvolta crudo e diretto, mi disse: “Mio papà vuole assumere un insegnante d’inglese per me... ...ti interessa?” Appunto, ogni straniero è americano e sono tutti insegnanti d’inglese. Ragionano così. Forse che m’aveva incontrato in una libreria. Chi vede per strada un “americano” si dice: “O è un ingegnere, o un insegnante di inglese.”
Non le risposi né sì né no. Le dissi: “Che libri usi per l’inglese? Perché non me li fai vedere?” ...Mi interessava vederla al chiuso... ...o da lei o da me.
Venne fuori che abitava proprio vicinissimo. I genitori sarebbero arrivati ma in casa non c’era nessuno. Era pure una casa su su, ma senza portinaio, dunque nessuno che poi potesse chiederle conto che ci facesse con un “americano” in casa. Comunque, se fossero arrivati i genitori, la poteva buttare sull’insegnante d’inglese che cercavano...
Non mi feci troppi problemi. Gelido, la buttai su quella cosa che lei cercava un insegnante d’inglese ed io le avevo chiesto di farmi vedere che libri usava. Non fece in realtà troppe storie a farmi andare a casa sua “per vedere i suoi libri d’inglese”. Nella sua stanza, le presi le mani e le ridissi: “Davvero, ti trovo bellissima e mi sono innamorato di te appena t’ho vista... ...perché non mi sposi subito.” Le baciai le mani e feci per tirarla a me.
Resistette e cominciò ad urlettare:
“Ecco voi americani siete tutti così.”
“Ne hai conosciuti molti?”, le dissi cinico.
“Schifoso! Schifoso! Non ho mai conosciuto nessuno. Sei il primo con cui parlo... ...non siamo come voi!”
“E come fai allora a sapere che fanno o facciamo tutti così?”, insistetti.
“L’ho visto alla tv... ...e poi lo sanno tutti che siete così, che pensate sempre al sesso...”
“Ah, ecco, uno, io, vuole sposarti subito e tu subito ti riscaldi a quel modo...” continuai.
“Ma sono troppo giovane... ...devo ancora fare l’università.”
“Ecco, allora diveniamo amanti subito e poi mi sposi quando hau finito l’università...”
“Te l’ho detto... ...pensate sempre al sesso, voi americani! ...Se continui a parlare di queste cose è meglio che smettiamo subito e che tu te ne vada.”
“Ma non dovevi farmi vedere i tuoi libri d’inglese?”
“Ma tu pensi solo a quelle cose lì...”
“Sei tu che sei così bella che mi sono subito innamorato di te...”
“Ecco, che continui a parlare di quelle cose lì, ...è meglio che la smettiamo, che tu te ne vada.”
“No, dai, facciamo come fratello e sorella...”
“Ecco, facciamo come fratello e sorella...” assentì, lei.
Era però proprio eccitata. Pensava solo al cazzo, seppure avesse terrore al solo pensare che lei pensava solo al cazzo e che comunque era una cosa distante che non poteva avere fino a che non fosse stata sui trent’anni, più d’una dozzina d’anni dopo.
Coi suoi libri ci sedemmo su un divano.
Le ripresi le mani e le dissi diretto diretto:
“Sai che anche i fratelli e sorelle hanno i loro segreti...”
“Come sarebbe a dire?!”
“Se un fratello ed una sorella si vogliono bene, almeno qualche bacetto casto se lo danno...”
Arrossì tutta.
Presi a baciarla con delicatezza sul collo.
Si divincolo ma senza troppa convinzione.
Me la tirai contro e le sussurrai: “Se vuoi che siamo davvero fratello e sorella mi devi almeno far baciare la tua sorellina, e le misi la mano sulla sua passerina e le dita proprio sulla righetta, dentro i calzoncini.”
Era agitatissima, eccitatissima e non sapeva che dire e fare.
Le sfilai velocissimo i calzoncini, ma le scattò:
“Ennò, cosa mi vuoi fare?! Voi americani siete proprio dei porci.”
“Mannò, dai...”, le dissi serio serio. “Ora diventiamo davvero fratello e sorella e poi continuiamo a vedere i tuoi libri d’inglese e tu mi dici tutti i tuoi segreti ed io i miei, proprio come fanno dei veri fratelli e sorelle.”
Presi un foulard di dimensioni non piccole che era lì. Lo tesi sulla diagonale tra le mie due mani. Lo feci ruotare per arrotolarlo come farne una specie di benda. “Dai, ti faccio vedere come si fa.” E glielo misi sugli occhi, legandoglielo sul dietro della testa. “Ora diventiamo davvero fratello e sorella.”
La rovesciai comoda con le gambe verso l’alto sulle mie spalle. Finii di togliele veloce i calzonici e con essi pure le mutandine e prima che potesse pensare troppo che le stesse succedendo le stavo succhiando il clitodide per farla esplodere in dei violenti e profondi orgasmi clitoridei. Quando fu ben fatta e piacevolmente distrutta, mi ero intanto liberato dai miei calzoni e mutande ed ero lì col cazzo turgidissimo da far male, e gliemo misi, per quel che entrava all’inizio, in quella fichetta eccitatissima dal lavoro di bocca. Tanti corti su e giù, su e giù, su e giù, finché non le entrò tutto con lei che gli esplodeva attorno ed io che le venni dentro.
Se ne stette un po’ lì, ed io con lei, a godersi il dopo come stordita. Appena si riebbe, cominciò a dire e ad urlettare: “Cosa mi hai fatto?! Cosa mi hai fatto?! Mi hai preso il mio fiore! Ora mia mamma mi ammazza.” E così via, sempre più isterica. Glielo rimisi dentro turgido per una seconda calvalcata sostenuta dopo un cinico: “E tu non dirglielo.” Si acquetò il tempo che se lo rigodette di nuovo varie volte. Dopo un po’, finita quella seconda “sessione”, ricominciò: “Come faccio ora?! Come faccio ora?! Col mio fiore che se l’è preso un americano!” E continuò con toni sempre più isterici.
...Era quello che le era stato inculcato dalla famiglia e dalla scuola, come un po’ a tutti, fin dalla nascita... Di fronte a quell’isteria crescente ed a quell’autentica disperazione, non c’era altro da fare: le detti un ceffone, perché si riavesse da quell’accentuato crollo nervoso, e me ne andai. Mentre mi ridiveniva durissimo di voglia di quella fichetta succulenta.
Sulla via di casa, anche se non dovevo andare proprio a casa ma solo in prossimità, c’era non so che cerimonia religiosa o parareligiosa, forse un funerale, con uno di quei tendoni dalla parte opposta della casa interessata e pieno di gente che ostruiva tutto il vicolo impedendo il passaggio. Mi cadde l’occhio su una fichetta abbigliata da troietta che volesse solo esser montata. Era affianco ad una con abbigliamento simile, tra il ricercato ed il sexy, verosimilmente la madre anch’essa tuttora gustosa, almeno da quel che potevo vedere. Appena fissai la fichetta, lei s’accorse d’essere fissata e s’irrigidì arcuando la schiena, tendenso il collo verso l’altro, esaltando quel culetto su quelle coscione con gonna e stivaletti. Parcheggiai la bicicletta e, sfruttando quell’affollamento, mi diressi verso la fichetta continuando a fissarla e con lei che s’accorgeva che la fissavo e che mi stavo dirigendo verso di lei.
Non feci neppure in tempo a dirle che era bellissima, che mi sbatte contro un:
“Che cosa vuoi?”
“Voglio te.”
“Non sono mica una prostituta.”
“Non voglio una prostituta, voglio te.”
Insistette: “Vai lì se cerchi una donna.” E m’indicò uno dei numerosi bordelli che sono in effetti un po’ dappertutto, soprattutto in quell’area.
Complice la folla pressata, le misi la mano su fianco scoperto. Da dietro, gliela infilai sotto la gonna, sfruttando una fossetta della spina dorsale sull’osso sacro, e sotto tra le chiappe verso la fica. Poi le presi la mano e me la tirai dietro. La portai dietro quel tendone, uno spazio libero e nascosto alla vista, tra il muro ed appunto il tendone per non so che cerimonie stavano facendo.
Lì, le feci: “Ridimmi di andare a puttane e t’ammazzo qui”, mentre me la tiravo contro e la baciavo sul viso.
“Se hai voglia, devi andare lì...” insistette.
Visto che erano tutti a quella cerimonia che continuava le dissi:
“Dove abiti?”
“Lì”, ed accennò lì vicino.
“Fammi vedere dove.”
Andammo a casa sua, fino sulla porta di casa.
Mentre me la tiravo contro per limonarla un po’, era un punto dove nessuno vedeva nulla, le chiesi dove fosse la chiave.
“Te l’ho detto che non sono una prostituta.”
Mi limitai ad un: “Appunto. Non mi interessano le prostitute.”
Aveva una chiave attorno al polso.
La presi ed era proprio la chiave della porta di casa.
La aprii e le tirai dentro.
La spinsi verso un letto.
“Neppure ti conosco e...”
“Appunto, ti violento...” sebbene la situazione non fosse proprio da...
Lei si limitò ad un ultimo: “Sono vergine.”
Con un “Anch’io” che la lasciò senza parole, la spinsi sul letto e le fui sopra.
Anche lì, dopo corti su e giù finché non entrò tutto, mi feci e le feci godere una lussuriosa calvalcata.
Ce ne stemmo lì troppo, forse.
Mi stava ridivenendo duro, quando... ...evidentemente la cerimonia era finita. Arrivò la madre che comincio a colpirmi, veloce ma piano piano alla cinese, e ad urlettare dei: “Cattivo! Cattivo! Cosa hai fatto alla mia bambina!”
Sarebbe stata da tirare sul letto e da trombare pure lei. Ma ormai era tardi, per me. Mi rimisi veloce i calzoni e me ne scappai via.
Andai al punto di raccolta da dove raggiungemmo Taipei per fare un bel servizio agli italioti ed ai taiwanesi della tortura bianca. Intanto, in camera mia, c’era il simulatore, coi pidocchietti che, vedendomi nel loro strumento di guardonaggio sebbene io non ci fossi, facevano le solite battutine maniacali, timorosi d’essere uditi ed individuati dagli altri che in effetti li sentono, li vedono e sanno che sono loro in servizio pidocchiesco di Stato. A Taipei, abbiamo dovuto fare degli interventi decisivi sia sulle teste vuote dei dementi ossessi italioti e paraitalioti che su quelle dei dementi ossessi di un ufficio di servizi di polizia taiwanese che opera su loro istruzione e rende conto agli italioti lì ed a Roma di queste demenze su commissione. Mandano loro dei comici rapporti settimanali e mensili di questa tortura bianca con cui non concludono in realtà nulla. La notte ed il primo mattino sono ottimi per queste operazioni sui pidocchi.
by Georg Rukacs
Taichung è una città così. Se da questo posto, tra Sogo e la stazione, vado verso ovest, per esempio a Rt-Mart, che è un grande magazzino, anche alimentare, sempre aperto a qualunque ora, ci sono bodelli d’ogni genere dappertutto. Anche qui, tutt’attorno. Anche in altre direzioni. Non so altrove. Ma in questa città, che credo sia sul milione d’abitanti, è così. Bordelli d’ogni genere con mignotte d’ogni genere, da quel che posso inferire dall’esterno, non essendo mai entrato, ma alcuni sono proprio come sulla strada per cui qualcosa si intravvede anche solo passando.
Poi, come naturale contraltare, ci sono le vergini, o quelle tutta casa e marito, sempre che il marito, dopo anni e figli in gran numero, voglia ancora qualcosa. Ah, come dappertutto, ci sono anche le altre...
Come sempre, quando si parla in media, o per grandi generalizzazioni, la vera vita reale è poi quelle che capita a voi, in prima persona, nel vostro microcosmo.
L’ultimo, era uno di quei sabati sera in cui non t’aspetti nulla, sebbene io m’aspetti sempre qualcosa anche quando non si sa bene se poi qualcosa succederà davvero.
La giornata si trascina. Poi si riscalda, nel senso che ti sei finalmente fatto la barba, lavato, oltre ad avere finito le solite quotidianità sul web ed avere almeno ingranato qualcuna delle mille cose che ti eri ripromesso di fare, verso sera. Allora, per rompere il chiuso d’una stanza, d’un quartiere piccolo, del solito panorama ridotto e piatto, decidi di farti un giro in una di queste librerie cinesi che sono come biblioteche dove tutti, pure io, vanno a leggere più che a comprare.
Appena a ovest di qui. Pochi minuti in bici, eppure in zona del tutto diversa, lussuosa, credo già in quella che qui chiamano “piccola Europa” dati l’architettura ed il lusso.
Era proprio una pischelletta. Con dei calzoni corti come si usavano in Europa, per bimbi maschi, mezzo secolo fa. Di quelli che coprono, non di quelli che esaltino le cosce. Delle belle forme, comunque.
Io ero lì a leggere un libro, al secondo piano cinese che considera primo il pian terreno. La ho subito notata. Ha visto che l’avevo guardata e poi seguita con la coda degli occhi pur chino sul libro. Lei continuava a gironzolare, come d’una che o non cerchi nulla davvero o che non trovi quel che cerca. Io ero poi andato al quarto piano, quello delle lingue con letteratura soprattutto in inglese e materiali linguistici vari e di lingue differenti. E m’ero seduto non vicino a dove stanno i commessi, che è poi l’unico posto in cui ci si possa sedere a quel piano, salvo sedersi per terra come molti, anch’io talvolta, fanno a Taiwan.
Forse, perché era un posto riparato ed, a quell’ora e quel giorno, non c’era nessuno, la pischella aveva cominciato a ronzarmi attorno. In effetti lì, se ben ricordo, è più affollato la domenica a quell’ora, ormai oltre le 20. Aveva cominciato a ronzarmi attorno come fanno le cinesi, cioè fingendo di non vedermi e d’essere tutta concentrata su non so cosa. Poi, s’era seduta nel punto più distante da me, in quello spazio per sedersi, che è un modo di dirti che t’ha ben visto e che ti considera “pericoloso”. Tuttavia, ad un certo punto aveva cominciato a guardasi attorno come agitata da qualche cosa. Al che, l’avevo guardata diritta negli occhi, che aveva subito abbassato, come a chiederle se volesse qualcosa da me.
“Mi scusi,” aveva cinguettato “Lei è un insegnante di inglese?”
“No, non sono né insegnante né anglofono.” le risposi gelido.
...Intanto, per loro, lo straniero è comunque un “americano”...
“Ma sono sicura che lei può spiegarmi...”
“Fammi vedere”, le dissi.
Mentre guardavo quel libro di una femministra che lei aveva aperto proprio dove parlava di anticoncezionali ed aveva incontrato qualche parola latina, che ora usava come scusa per chidermi spiegazioni, mi chiese:
“Di, dove sei?”
Le dissi che ero austriaco. Non sanno neppure dove sia, nelle Cine. In realtà, stavo solo pensando come trovare il modo di farmela subito o più in là, sempre che lei ci fosse stata.
Era magrina, pelle bianchissima, aria distante. Tuttavia, con delle forme ed un modo di fare che mi eccitavano. Di quelle, insomma, che pur senza farlo vedere, pensano solo al cazzo anche se, da quelle parti, magari si limitano a toccarsi frenetiche fino al matrimonio verso i trent’anni ed oltre. ...e poi continuano a toccarsi pure nel matrimonio, sempre che duri.
Evidentemente, era lì perché non sapeva che fare il sabato sera. Aveva poi preso quel libro come scusa, senza neppure pensare che libro fosse. Dopo, l’aveva aperto a caso e l’aveva usato come pretesto per attaccare bottone. Della serie: “Aggancio per conversazione seriosa il sabato sera con un “americano” da cui non oserei mai farmi trombare sebbene ne avessi voglia e sarei poi corsa a toccarmi tutta le notte e tutti i giorni successivi pensando che cazzo grosso e lungo dovesse avere.” ...Ah, è il loro ragionamento standard... o uno dei loro ragionamenti standard.
La volli mettere in imbarazzo. Per cui le buttai lì crudo: “Interessante questo libro... ...ho capito... ...fai l’amore col tuo ragazzo e vuoi vedere come non restare incinta...”
Diventò più che rossa. Divento di tutti i colori. Mentre mi gettò li veloce: “Non ho ragazzi! E, quelle cose, qui non le facciamo! ...non siamo mica come voi!”
Allora, le presi la mano e mentre gliela baciavo: “Perdonami! Perdonami! Perdonami! Ne ero sicuro! Si vede che sei una vera e serissima taiwanese... ...l’ho fatto solo perché volevo vedere cosa mi rispondevi. ...sei così bella... ...perché non sposi me subito?!”
Ridivenne di tutti i colori, ma ora in modo differente. In più, era eccitata da quel contatto mio con la sua mano, con la sua pelle e lei, la sua, dunque, con la mia.
La libreria stava chiudendo.
“Ah, dovevo dirti di queste parole. Voi proprio saperlo che sono?”, le dissi mentre ci avviavamo verso l’uscita. Continuai: “Cosa fai ora... ...perché non continuaimo a parlare, o hai da fare?”
Con quel fare che hanno le cinesi, talvolta crudo e diretto, mi disse: “Mio papà vuole assumere un insegnante d’inglese per me... ...ti interessa?” Appunto, ogni straniero è americano e sono tutti insegnanti d’inglese. Ragionano così. Forse che m’aveva incontrato in una libreria. Chi vede per strada un “americano” si dice: “O è un ingegnere, o un insegnante di inglese.”
Non le risposi né sì né no. Le dissi: “Che libri usi per l’inglese? Perché non me li fai vedere?” ...Mi interessava vederla al chiuso... ...o da lei o da me.
Venne fuori che abitava proprio vicinissimo. I genitori sarebbero arrivati ma in casa non c’era nessuno. Era pure una casa su su, ma senza portinaio, dunque nessuno che poi potesse chiederle conto che ci facesse con un “americano” in casa. Comunque, se fossero arrivati i genitori, la poteva buttare sull’insegnante d’inglese che cercavano...
Non mi feci troppi problemi. Gelido, la buttai su quella cosa che lei cercava un insegnante d’inglese ed io le avevo chiesto di farmi vedere che libri usava. Non fece in realtà troppe storie a farmi andare a casa sua “per vedere i suoi libri d’inglese”. Nella sua stanza, le presi le mani e le ridissi: “Davvero, ti trovo bellissima e mi sono innamorato di te appena t’ho vista... ...perché non mi sposi subito.” Le baciai le mani e feci per tirarla a me.
Resistette e cominciò ad urlettare:
“Ecco voi americani siete tutti così.”
“Ne hai conosciuti molti?”, le dissi cinico.
“Schifoso! Schifoso! Non ho mai conosciuto nessuno. Sei il primo con cui parlo... ...non siamo come voi!”
“E come fai allora a sapere che fanno o facciamo tutti così?”, insistetti.
“L’ho visto alla tv... ...e poi lo sanno tutti che siete così, che pensate sempre al sesso...”
“Ah, ecco, uno, io, vuole sposarti subito e tu subito ti riscaldi a quel modo...” continuai.
“Ma sono troppo giovane... ...devo ancora fare l’università.”
“Ecco, allora diveniamo amanti subito e poi mi sposi quando hau finito l’università...”
“Te l’ho detto... ...pensate sempre al sesso, voi americani! ...Se continui a parlare di queste cose è meglio che smettiamo subito e che tu te ne vada.”
“Ma non dovevi farmi vedere i tuoi libri d’inglese?”
“Ma tu pensi solo a quelle cose lì...”
“Sei tu che sei così bella che mi sono subito innamorato di te...”
“Ecco, che continui a parlare di quelle cose lì, ...è meglio che la smettiamo, che tu te ne vada.”
“No, dai, facciamo come fratello e sorella...”
“Ecco, facciamo come fratello e sorella...” assentì, lei.
Era però proprio eccitata. Pensava solo al cazzo, seppure avesse terrore al solo pensare che lei pensava solo al cazzo e che comunque era una cosa distante che non poteva avere fino a che non fosse stata sui trent’anni, più d’una dozzina d’anni dopo.
Coi suoi libri ci sedemmo su un divano.
Le ripresi le mani e le dissi diretto diretto:
“Sai che anche i fratelli e sorelle hanno i loro segreti...”
“Come sarebbe a dire?!”
“Se un fratello ed una sorella si vogliono bene, almeno qualche bacetto casto se lo danno...”
Arrossì tutta.
Presi a baciarla con delicatezza sul collo.
Si divincolo ma senza troppa convinzione.
Me la tirai contro e le sussurrai: “Se vuoi che siamo davvero fratello e sorella mi devi almeno far baciare la tua sorellina, e le misi la mano sulla sua passerina e le dita proprio sulla righetta, dentro i calzoncini.”
Era agitatissima, eccitatissima e non sapeva che dire e fare.
Le sfilai velocissimo i calzoncini, ma le scattò:
“Ennò, cosa mi vuoi fare?! Voi americani siete proprio dei porci.”
“Mannò, dai...”, le dissi serio serio. “Ora diventiamo davvero fratello e sorella e poi continuiamo a vedere i tuoi libri d’inglese e tu mi dici tutti i tuoi segreti ed io i miei, proprio come fanno dei veri fratelli e sorelle.”
Presi un foulard di dimensioni non piccole che era lì. Lo tesi sulla diagonale tra le mie due mani. Lo feci ruotare per arrotolarlo come farne una specie di benda. “Dai, ti faccio vedere come si fa.” E glielo misi sugli occhi, legandoglielo sul dietro della testa. “Ora diventiamo davvero fratello e sorella.”
La rovesciai comoda con le gambe verso l’alto sulle mie spalle. Finii di togliele veloce i calzonici e con essi pure le mutandine e prima che potesse pensare troppo che le stesse succedendo le stavo succhiando il clitodide per farla esplodere in dei violenti e profondi orgasmi clitoridei. Quando fu ben fatta e piacevolmente distrutta, mi ero intanto liberato dai miei calzoni e mutande ed ero lì col cazzo turgidissimo da far male, e gliemo misi, per quel che entrava all’inizio, in quella fichetta eccitatissima dal lavoro di bocca. Tanti corti su e giù, su e giù, su e giù, finché non le entrò tutto con lei che gli esplodeva attorno ed io che le venni dentro.
Se ne stette un po’ lì, ed io con lei, a godersi il dopo come stordita. Appena si riebbe, cominciò a dire e ad urlettare: “Cosa mi hai fatto?! Cosa mi hai fatto?! Mi hai preso il mio fiore! Ora mia mamma mi ammazza.” E così via, sempre più isterica. Glielo rimisi dentro turgido per una seconda calvalcata sostenuta dopo un cinico: “E tu non dirglielo.” Si acquetò il tempo che se lo rigodette di nuovo varie volte. Dopo un po’, finita quella seconda “sessione”, ricominciò: “Come faccio ora?! Come faccio ora?! Col mio fiore che se l’è preso un americano!” E continuò con toni sempre più isterici.
...Era quello che le era stato inculcato dalla famiglia e dalla scuola, come un po’ a tutti, fin dalla nascita... Di fronte a quell’isteria crescente ed a quell’autentica disperazione, non c’era altro da fare: le detti un ceffone, perché si riavesse da quell’accentuato crollo nervoso, e me ne andai. Mentre mi ridiveniva durissimo di voglia di quella fichetta succulenta.
Sulla via di casa, anche se non dovevo andare proprio a casa ma solo in prossimità, c’era non so che cerimonia religiosa o parareligiosa, forse un funerale, con uno di quei tendoni dalla parte opposta della casa interessata e pieno di gente che ostruiva tutto il vicolo impedendo il passaggio. Mi cadde l’occhio su una fichetta abbigliata da troietta che volesse solo esser montata. Era affianco ad una con abbigliamento simile, tra il ricercato ed il sexy, verosimilmente la madre anch’essa tuttora gustosa, almeno da quel che potevo vedere. Appena fissai la fichetta, lei s’accorse d’essere fissata e s’irrigidì arcuando la schiena, tendenso il collo verso l’altro, esaltando quel culetto su quelle coscione con gonna e stivaletti. Parcheggiai la bicicletta e, sfruttando quell’affollamento, mi diressi verso la fichetta continuando a fissarla e con lei che s’accorgeva che la fissavo e che mi stavo dirigendo verso di lei.
Non feci neppure in tempo a dirle che era bellissima, che mi sbatte contro un:
“Che cosa vuoi?”
“Voglio te.”
“Non sono mica una prostituta.”
“Non voglio una prostituta, voglio te.”
Insistette: “Vai lì se cerchi una donna.” E m’indicò uno dei numerosi bordelli che sono in effetti un po’ dappertutto, soprattutto in quell’area.
Complice la folla pressata, le misi la mano su fianco scoperto. Da dietro, gliela infilai sotto la gonna, sfruttando una fossetta della spina dorsale sull’osso sacro, e sotto tra le chiappe verso la fica. Poi le presi la mano e me la tirai dietro. La portai dietro quel tendone, uno spazio libero e nascosto alla vista, tra il muro ed appunto il tendone per non so che cerimonie stavano facendo.
Lì, le feci: “Ridimmi di andare a puttane e t’ammazzo qui”, mentre me la tiravo contro e la baciavo sul viso.
“Se hai voglia, devi andare lì...” insistette.
Visto che erano tutti a quella cerimonia che continuava le dissi:
“Dove abiti?”
“Lì”, ed accennò lì vicino.
“Fammi vedere dove.”
Andammo a casa sua, fino sulla porta di casa.
Mentre me la tiravo contro per limonarla un po’, era un punto dove nessuno vedeva nulla, le chiesi dove fosse la chiave.
“Te l’ho detto che non sono una prostituta.”
Mi limitai ad un: “Appunto. Non mi interessano le prostitute.”
Aveva una chiave attorno al polso.
La presi ed era proprio la chiave della porta di casa.
La aprii e le tirai dentro.
La spinsi verso un letto.
“Neppure ti conosco e...”
“Appunto, ti violento...” sebbene la situazione non fosse proprio da...
Lei si limitò ad un ultimo: “Sono vergine.”
Con un “Anch’io” che la lasciò senza parole, la spinsi sul letto e le fui sopra.
Anche lì, dopo corti su e giù finché non entrò tutto, mi feci e le feci godere una lussuriosa calvalcata.
Ce ne stemmo lì troppo, forse.
Mi stava ridivenendo duro, quando... ...evidentemente la cerimonia era finita. Arrivò la madre che comincio a colpirmi, veloce ma piano piano alla cinese, e ad urlettare dei: “Cattivo! Cattivo! Cosa hai fatto alla mia bambina!”
Sarebbe stata da tirare sul letto e da trombare pure lei. Ma ormai era tardi, per me. Mi rimisi veloce i calzoni e me ne scappai via.
Andai al punto di raccolta da dove raggiungemmo Taipei per fare un bel servizio agli italioti ed ai taiwanesi della tortura bianca. Intanto, in camera mia, c’era il simulatore, coi pidocchietti che, vedendomi nel loro strumento di guardonaggio sebbene io non ci fossi, facevano le solite battutine maniacali, timorosi d’essere uditi ed individuati dagli altri che in effetti li sentono, li vedono e sanno che sono loro in servizio pidocchiesco di Stato. A Taipei, abbiamo dovuto fare degli interventi decisivi sia sulle teste vuote dei dementi ossessi italioti e paraitalioti che su quelle dei dementi ossessi di un ufficio di servizi di polizia taiwanese che opera su loro istruzione e rende conto agli italioti lì ed a Roma di queste demenze su commissione. Mandano loro dei comici rapporti settimanali e mensili di questa tortura bianca con cui non concludono in realtà nulla. La notte ed il primo mattino sono ottimi per queste operazioni sui pidocchi.