mercoledì 15 novembre 2006

OligarkiaCentraffrikkana. 15. La truffa delle rottamazioni

OligarkiaCentraffrikkana. 15. La truffa delle rottamazioni
by Georg Rukacs

Non ha caso l’OligarkiaCentraffrikkana, pur ricca di tanti, troppi, diamanti, vive nella merda.

Stendiamo un velo di silenzio sul passato...
...ennò cacchio!, diciamola tutta!, che truffatore, oltre che imbecille, quello lì che s’è costruito una brillante carriera sull’immerdamento di tutti i centraffrikkioti, speculatori e corrotti a parte che invece si sono ben ingrassati sulle sue furbastre demenze!

Parliamo, naturalmente, del noto Bennito. Se non lo conoscete, non importa. Là, nel Nord è normale che non conosciate le cose affrikko-equatoriali.

Cominciò nel 1978, con la prova di fedeltà al suo beniamino e Padrino, che voleva far sapere che sapeva ma che rispettava le regole mafiose, dunque che poi voleva anche lui la sua parte dei profitti di quel sacrificio rituale in corso. “Vai e dici che te l’hanno detto gli spiriti. Tanto, chi deve capire lo capisce chi ti manda e perché.” Bennito andò, tutto rosso, farfugliando. Nessuno, tra quelli che non capirono, gli credette. “Ma che ci viene a contà queste stronzate. Sì, che Lei è professore, ma, cacchio, noi siamo qui che non sappiamo che pesci prendere e neppure se prenderli o meno che qui ci castonano se non facciamo ma ci castonano ancor di più se facciamo quello che non si deve, e Lei, esimio professore, ci viene a dire che gli spiriti Le hanno detto Grado-LI, cioé Grado 51 o Grado cinquantunesimo, e Lei insiste che questo risolverebbe tutti i nostri problemi investigativi. Scherza o ha bevuto?!” E lui, furbastro ma sempliciotto, sudava sudava rosso rosso: “Ma me lo hanno deeeetttooooooooo.” Fece loro così pena che alla fine registrarono l’inutile informazione, che tutti invero già sapevano, per ciò che riguardava localizzazioni stradali, e sapevano pure che si doveva solo lasciar perdere, perché, chi poteva, voleva non si facesse nulla, e lasciarono andare il professore furbastro e sempliciotto. Chi invece era piuttosto introdotto ai segreti esoterici sapeva che il Grado LI [cinquantunesimo] era il Maestro del Gladio, il grado noto più alto del Circolo della RosaCroce. E pure altro, invero. Si dissero che il fessacchiotto era stato mandato dal beniamino Padrino che voleva così dir loro che da Oxbridge, dove tutto sapevano e potevano, garantivano non si sarebbero frapposti. Che il sacrificio rituale da spiritismo centraffrikkiota facesse pure il suo corso, che neppure chi davvero poteva avrebbe battuto ciglio. Né il centro del mondo, così come né ovest, né est, né sud, né nord, che il centro vero della RosaCroce controllava, sarebbero stati d’ostacolo. Un po’ tutti infatti assistettero. Ma nessuno ostacolò ciò che doveva essere. L’impuro moro fu sgozzato e l’ordine delle cose ristabilito. Poi, si scannarono l’un l’altro, dopo un po’, ma per altro.

L’anno successivo il professorucolo imbecillotto ma furbastro fu premiato e fatto Ministro, seppur per poco. “Beniamino Padrino dimmi cosa devo fare lì?” “Bennito mio prode e fido, mettiti a disposizione... ...ti diranno loro.” Il furbastro Bennito imparò subito. “Io li agevolo nel loro rottamare coi soldi dello Stato. Loro incassano. Loro mi spingono su.”

“Ministro Professore, guardi, Lei ci dà i soldi per le industrie noi abbiamo sfasciato. Ecco la legge ci permettiamo suggerirLe...” La legge frodi-pesce d’aprile. 1979-1999. 20 anni di soldi a palate per aziende che loro, i grossi dell’OligarkiaCentraffrikkana, avevano sfasciato. E lui, grazie a poche settimane di cui aveva profittato per quella legge per loro e per lui provvidenziale, divenne un “grande economista”, un “giovane promettente”, uno “studioso e statista serio ed affidabile”. Quando gli fu messa tra le mani l’industria di Stato, non ebbe dubbi. Continuò su quella strada già provvidenzialmente imboccata. Si specializzò nel regalare, anzi pure pagandoli per l’incomodo, ai grossi dell’OligarkiaCentraffrikkana, le aziende di Stato più redditizie. A volte gli andò bene. Altre volte, altri, statisti veri ed incorruttibili, riuscirono a bloccarlo. Loro furono poi tutti puniti venendo epurati, e pure con infamia, mentre lui, Bennito, ed altri come lui, furono spinti su. Com’è quell’espressione ...che gli escrementi galleggiano?!

Arrivato a capeggiare il governo del Centraffrikka, il Bennito restò fedele al suo modello rottamazioni.

L’industrialone dell’auto vuole ulteriori soldi oltre a tutti quelli già riceve d’uso ed oltre a tutte le succulenze di Stato abbiamo lui regalato e stiamo ancora regalandogli?! Ecco, inventiamo il programma rottamazione auto! Tu rottami la vecchia, e te ne acquisti un’altra, con agevolazione pagata dallo Stato. Lui s’arricchisce. I sindacati pure. I sudditi sono tutti più poveri. Ma non lo sanno. Perché i media, che l’industrialone controlla, si gettano ad esaltare il grande statista Bennito grazie a cui le statistiche dell’industria meccanica balzano verso l’alto. Tutti erano più poveri, speculatori e servi loro a parte. Però le statistiche ed i media dicevano che erano tutti più ricchi. Quando poi, esauritosi l’effetto droga, l’industria dell’auto ed i relativi dati statistici risprofondavano, ecco i media ad esaltare chi, anche lì sprecando i soldi di Stato, dava altri finanziamenti al settore ora in crisi. Prima, il grande professore e statista Bennito, era l’eroe che sprecava i soldi di tutti per drogare con le rottamazioni. Poi l’eroe che risprecava i soldi di tutti per sopperire alla inevitabile crisi d’astinenza svanito l’effetto rottamazione. Il Centraffikka sprofondava sempre più, anche grazie a lui, che tuttavia era esaltato come il genio. Con tutti i soldi che dava a quelli dell’OligarkiaCentraffrikkana... ...certo che per costoro era Il Genio!

Il prode Bennito, se ne inventò poi delle altre. “Ecco rottamiamo i frigo, le lavatrici...” “...Sai voglio favorire quel mio altro amico” si diceva tra sé e sé. “Le aziende di Stato buone le ho già regalate tutte... ...in attesa di trovarne altre da regalare ai mei fedeli, ecco, una bell’altra rottamazione di ferraglia è proprio quello che mi ci vuole.” E, di nuovo, tutti i profittatori ad esaltare il genio. Tutti erano più poveri, speculatori a parte, mentre le statistiche ed i media dicevano di nuovo, almeno per qualche mese, mentendo, che tutti erano più ricchi. E, poi, svanito l’effimero effetto, i media degli speculatori continuavano a mentire, coi silenzi sullo stato reale delle cose e sulle relative responsabilità.

Ecco, lo sappiamo, ci credete pure voi che il genio v’ha arricchiti, anche se il Centraffrikka è sempre più immerdato e pensate che sia io che vi conto balle che qualche mia malevolenza verso il genio.

Tutto fu evidente, un giorno, a tutti... ...È come dopo le guerre... ...la gente è senza tetto e pure senza pane, però le statistiche dicono che s’è in pieno boom economico. È vero che s’è in pieno boom... ...se prima s’è distrutto tutto e si deve ricostruire... ...S’è in pieno boom, ma s’è più poveri... Altra cosa è uno sviluppo vero e sostenuto senza previe distruzioni artificiali o del caso. Ecco, le rottamazioni sono proprio quello... Se dopo aver mangiato mi metto le dita in bocca e vomito, e poi rimangio, le statistiche diranno che ho mangiato il doppio... Pensateci... ...C’arrivate pure voi, fedeli del Bennito... ...eppure voialtri che lo avversate ma per qualche motivo irrazionale... ..È poprio più imbecille e criminale, col suo blocco di speculatori, di quel che si potrebbe mai immaginare. Ma, noi non vogliamo immaginare nulla...

Infatti, poi, tutti capirono... ...Un giorno il prode Bennito ebbe un colpo di genio per [fingere d’]uscire da quel cronico sottosviluppo centraffrikkaiota. Fece distruggere tutte le case del Centraffrikka. Vi fu, ovvio!, un boom edilizio mai visto, sebbene la grande maggioranza rimase per lungo tempo senza casa, abitando in tende. Ed anche quando le case, poco a poco, seppur impetuosamente per le statistiche ed i media, furono ricostruite, i più fortunati s’indebitarono a non credersi perché non avevano i soldi per pagarsi le nuove costruite. Le statistiche indicarono uno sviluppo strepitoso. I media degli speculatori cantarono le lodi al prode genio Bennito che aveva permesso tale incredibile boom. Però il popolo era sul lastrico e spesso senza neppure più una casa visto che erano state tutte distrutte dal genio e le nuove non erano accessibili alle vaste masse. Ed, ancora, l’effetto sovrapproduzione, dopo. Dunque, crisi gravissima. Non si vive di sole case, come diceva qualcuno... Lo sviluppo vero e la ricchezza diffusa sono altra cosa.

I modelli, quelli rottamazione inclusi, vanno sempre testati nei casi limite per vedere se siano davvero benefici e per chi. Il modello rottamazioni era veramente solo una truffa, ottima unicamente per i soliti speculatori dell’OligarkiaCentraffrikkana. Perché pensate che, lì nel Centraffrikka, i “governanti” non sappiano più dove raschiare soldi e soldi per spenderli per chi e per cosa nessuno sembra sapere, mentre, nonostante tali “grandi” politiche e visioni, tutto affonda ogni giorno di più? Eppur quelli della cupola dell’OligarkiaCentraffrikkana sostengono tale sfasciatore... ...infatti loro, oltre a lui, ben prosperano su tale sfascio...

lunedì 13 novembre 2006

OligarkiaCentraffrikkana. 14. Il nuovo Modello di Rottamazione Sociale: Lavorare Meno, Lavorare in Meno, Sottosvilupparsi più Veloci

OligarkiaCentraffrikkana. 14. Il nuovo Modello di Rottamazione Sociale: Lavorare Meno, Lavorare in Meno, Sottosvilupparsi più Veloci
by Georg Rukacs

Il brillante governo dei geni più originali dell’Unione NaziSinistra Centraffrikkana, in concertazione con cupole sindacali, confindustriali e burocratiche, ha elaborato un innovativo Modello di Rottamazione Sociale.

La sua filosofia è
disoccupazione è bello,
sottosviluppo è meglio
.

Per nascondere la disoccupazione, i cinquantenni rinunciano a lavorare per far lavorare i quarantenni. Poi, i quarantenni rinunciano a lavorare far far lavorare i trentenni. Poi, i trentenni rinunciano a lavorare per far lavorare i ventenni. I ventenni, nella prospettiva di raggiungere la vicina età dell’abbandono, fanno solo finta di lavorare, naturalmente, per preservare energie per l’età del riposo.

Così, la disoccupazione ufficiale sparisce. Mentre la disoccupazione reale, pur rimossa per legge, diviene il nuovo Modello di Sottosviluppo Accelerato del Centraffrikka.

Tutti infelici, dunque, pur nella “felicità” dell’eguaglianza sottosviluppista, mentre l’oligarchia e le burocrazie gozzovigliano nell’abbondanza.

Hanno pure trovato una copertura “a sinistra” alle loro follie: il vaniloquista ed aitante Kapezzonbutu, già ometto di fiducia di Pannellutu.

Questo, ieri ed oggi.

Non disperare.
Domani è un altro giorno.
Nel perduto Centraffrikka,
al peggio non c’è mai limite.
Il meglio è invece escluso.

venerdì 10 novembre 2006

MaximaImmoralia. CarlosAlbertutuRojo, dall’Istituto Pensioni all’AlleanzaNordista. 10.11.2006

MaximaImmoralia. CarlosAlbertutuRojo, dall’Istituto Pensioni all’AlleanzaNordista. 10.11.2006
by Georg Rukacs

Un posto sperduto di Mediterranea, naturalmente. Città di Tauronia. Istituto Pensioni.

Avrà sessant’anni ora. Chissà se è già andato in pensione oppure se ci andrà tra poco. No, lui non era del luogo. CarlosAlbertutuRojo era nato a Cecinutu nel nord del centro di quello Stato tropicale. Tauronia era invece nel NordOvest. La solita famiglia opportunista che gli aveva aveva dato un nome monarchico non osando dargli un nome apertamente più proprio di sostenitori del passato governo fascista appena, solo una ventina di mesi prima della sua nascita, disfatto da forze esterne superiori. Lui, infatti, in sintonia con l’aria che respirava a casa, casa di fascisti e collaborazionisti di amici dei fascisti non veramente convertitisi ai nuovi credi occidentali ed orientali, era fin da bimbo divenuto fascista.

Fascista opportunista. Uno prima è opportunista. Poi che divenga, o si dica, o si creda, fascista, comunista, lib, lab o chissà cos’altro non è che conti molto. Uno dei tanti che arrivato all’università poi non l’aveva finita, forse neppure veramente fatta almeno un po’. Ah, certo, da studente, era attivissimo a fare il fascista. Andava con la sua banda a fischiare l’uno o l’altro nei luoghi in cui non erano troppo contrastati dagli abbondanti rossi locali. Oppure andavano a schiamazzare addirittura incoraggiati dai rossi locali ad andare loro fascisti a fischiare coloro che i rossi non potevano fischiare apertamente perché a livello di vertice magari ne dipendevano. Allora, in zone rosse rossissime, prime nere nerissime, mandavano i fascisti, cioé i fessi restati fascisti-fascisti invece che divenire fascisti-rossi come erano divenuti tutti gli altri fascisti dell’area. CarlosAlbertutuRojo era uno di questi fascisti scemi che all’università rossissima di città rossissima andava, perché il sui gruppo era spedito dai rossi, a fischiare leader di partiti minori di governo con cui l’opposizione rossa era ben connessa e cui tuttavia avrebbe anelato subentrare nella sudditanza diretta alla cupola della finanza. Lasciamo stare, qui, i perché e gli intrichi della cosa, che sennò si fa tutto troppo ed inutilmente complicato.

CarlosAlbertutuRojo eveva poi lasciato perdere quella inconcludente vita da studente. Aveva trovato il modo d’infilarsi in un imbarcata d’assunzioni fuori ruolo dell’Istituto Pensioni in quella città del NordOvest ed aveva cominciato a lavorare lì. Certo, a tutti raccontava d’essere dottore. Pure taluni dirigenti lo chiamavano dottore, forse per diletto. In realtà non lo era. Aveva altre “benemerenze”, maturate nella sua carriera fascista: il leccaculismo diretto, immediato, servile, del potere. Non ci si fraintenda. Non vogliamo dire che i fascisti siano leccaculi eccetera del potere. Un mio collega di lavoro, un fasciorivoluzionario, diceva che un vero fascista è un puro cavaliere d’altri tempi. In realtà chiunque, se vuole, se ha la tempra, può essere puro cavaliere d’altri tempi. Il punto è essere, o meno, puro cavaliere d’altri tempi od anche dei tempi nostri. Forse, se uno lo è o lo diviene davvero, impara che non occorrono altre etichette che semmai tolgono alla purezza cavalleresca, inquinandola con fanatismi e presunzioni di cui in realtà non s’ha bisogno. Ritornando ai leccaculi del potere, ci sono tranquillamente comunisti o lib o lab o altro che lo sono allo stesso modo e nelle stesse percentuali. Certo, talvolta, ci sono delle differenze procedurali. C’è chi si copre dietro il sindacato ed il partito, chi dietro lo stregone del villaggio o la congregazione degli stregoni, o dietro altre entità pubbliche od occulte. In quello Stato di Mediterranea, dove i fascisti non divenuti comunisti o democratici erano pochi ed isolati, il fascista, se ha la vocazione a fare il quacquaracquà, va e si mette a disposizione del capo, senza tante balle e mediazioni di sindacato, partito, loggia od altro.

Infatti, CarlosAlbertutuRojo aveva subito ricevuto incarichi di fiducia. Non che lo stipendio cambiasse, salvo qualche indennità di nessuna rilevanza. Neppure la carriera. Fosse stato davvero dottore, anche in matematica (come rispondeva rapido ed inverosimile se qualcuno sinceramente curioso gli chiedeva in cosa fosse laureato), avrebbe potuto avere carriere brillanti anche fuori di lì, soprattutto nell’epoca dell’informatizzazione, che non è iniziata oggi, dei luoghi di lavoro. Invece aveva continuato a fare banali lavori amministrativi da impiegato. Usava le posizioni acquisite e l’aurea d’uomo di fiducia di direzione e capi per farsi qualche trombata con qualche collega ruffianetta e per farsi gli affari propri come molti fanno lì, all’Istituto Pensioni, e non solo lì, in quelle insulse e corrotte amministrazioni pubbliche, in realtà ben privatizzate dai singoli burocratelli, di quel surreale Stato di Mediterranea.

Il tempo era passato. Tante cose erano capitate. Anche in quella sperduta Mediterranea, soprattutto in città come Tauronia, c’erano stati movimenti terroristici e simili, con arresti in massa ora centrati, ora meno, ora del tutto scentrati. Anche l’Istituto Pensioni di Tauronia aveva avuto i suoi. I più diversi. Ma, come si sa, media e gente, gentaglia inclusa, generalizzano sempre tutto. Qualcuno era restato fuori. Qualcuno era ritornato a lavorare lì. Arrestato l’uno o l’altro, tutti i confidenti dell’Istituto Pensioni s’erano precipitati a riferire che loro sapevano tutto. Nessuno li aveva ascoltati perché poi, tira tira, non sapevavo nulla di nulla né avevano nulla di utile da riferire a chicchessia. Addirittura confondevano i nomi. Chi credeva che l’uno fosse l’altro. Lo dice la stessa teoria dell’informazione, o banali constatazioni di come vanno le cose in questo campo, che un’informazione, anche solo una voce, una frase, una parola, passando di bocca in bocca al massimo si conserva immutata, sebbene spesso perda la sua forma originaria, dunque il messaggio cambi. Uno dice una cosa. Altri l’ascoltano. Un altro, nel riportarla, aggiunge del suo o capisce male. Alla fine della catena anche un’informazione all’inizio affidabile diviene altra cosa.

Alcuni di quegli spofondati nel circuiti inquisitorio e penitenziario poi erano riapprasi ed erano rientrati formalmente immacolati all’Istituto Pensioni. Ma, come si sa, il peccato c’è sempre se lo si vuol vedere, cioè se lo si vuole inventare. Uno era magari stato, almeno a parole, e nell’etica, un’acceso estremista. Se poi rientrava negli ambienti precedenti freddo o scettico ma in piedi e ben eretto, ecco che era facile farlo divenire uno che passato attraverso la scuola della repressione e delle carceri speciali s’è temprato per continuare non so ben cosa, sebbene onestamente non fossero proprio più i tempi, anche se qualche continuista, molti solo a parole, c’era sempre. O abiuri e dai “spiegazioni” o devi essere lo stesso di prima: ecco come ragiona il pidocchio, insetto immutabile.

Fa molto chic, dopo essere stato un “grande” rivoluzionario, cambiati i tempi, infamare tutti e tutti e poi raccontare con pathos che si sono capiti i propri errori, oppure profondersi in autocritiche ed “analisi” per immmerdarsi bene e così mostrare che ci si è redenti. Bisogna essere capici di farsi quelle parti. Bisogna pure essere in sintonia paranoica con chi quelle parti se le beve. In realtà, le persone restano sempre le stesse. Cambiano magari le etichette che si danno. Forse, una maturazione, è cercare almeno di smetterla di darsi etichette. Ciò che sembra onore a volte è solo ottusità. Tuttavia esiste un onore vero che è, senza bisogno di tante parolone e vanteria, elementare rispetto di sé stessi e dunque anche degli altri, almeno fino a prova contraria che l’altro sia solo un pidocchio e dunque che regole di normale umanità sarebbero solo controproducenti.

CarlosAlbertutuRojo aveva partecipato a tutti i “si dice”, anche in quelle cose, anche su costoro del suo ambiente di lavoro. Essendo il lecchino delle direzioni, ed essendo entrato in contatto con tutti i vari (alcuni, non molti) arrestati per “terrorismo” , o cose che sui media o nei “si dice”, erano apparse simili, lì nell’Istituto Pensioni di Tauroinia, era nei circuiti dei pettegolezzi e con ansia di mostrarsi più informato e furbetto di altri e così dunque riferire al capo di contatto del momento. Se uno fa il confidente, deve fornire qualcosa, anche se gli stessi usano o subiscono i confidenti sanno che gran parte delle loro confidenze spesso non vale nulla.

Nel frattempo, si era ormai alla fine anni ‘80 ed inizio anni ’90, era nata, in Mediterranea, nel Nord, l’AlleanzaNordista. In paesi limitrofi, secessioni avevano avuto successo. Era proprio il momento, la situazione avesse espresso un movimento veramente secessionista e dunque deciso a lanciarsi nell’avventura che avrebbe potuto, anche rapidamente, trasformarsi davvero in realtà. Evidentemente, quella perduta Mediterranea non era capace di far nulla sul serio, neppure sparire dopo un’esistenza grama ed oppressiva di tutte le nazioni contenute in quello Stato artificiale frutto del colonialismo, anche se tutti lo facevano passare come fosse Stato da sempre esistito ed un giorno restaturato. Non era proprio mai stato così. Lo Stato di Mediterranea era stato un frutto del colonialismo. Colonie, seppure non formalmente tali, dell’uno o dell’altro, erano state sottratte all’uno ed all’altro e trasformate in sfasciato Stato sottomesso al Grande Impero di Londra. Appunto, questa sfasciata Mediterranea, pur in un momento favorevole, e mentre vicini davano la botta a Stati ormai senza senso secedendone, non era neppure stata capace, nelle sue parti più vitali, di esprimere un movimento davvero secessionista e che si lanciasse dunque verso la secessione immediata. Frattaglie corrotte, ma restate a bocca asciutta, dei partiti tradizionali, s’erano riassemblate nell’AlleanzaNordista, solo ansiose di mangiare anche loro la loro parte di torta.

Lì a Tauronia e regione, la sezione regionale dell’AlleanzaNordista era davvero un bel campione di corruzione. Il capo regionale dell’AlleanzaNordista era un teatrante ignorante ed avvinazzato che più che recitare non sapeva fare, mentre tutti si facevano i fatti loro e solo i fatti loro. Tutti guardavano in cagnesco tutti gli altri. Tutte le confraternite guardavano in cagnesco le altre confraternite. Sì, succede un po’ in tutti i partiti. Ma nell’AlleanzaNordista era tutto più evidente e con un’ansia di mangiare che portava a continui scontri, frammentazioni, espulsioni, e di fatto, ad una rapida contrazione del peso elettorale inizialmente notevole a seguito sia dello sfascio poliziesco-giudiziario degli altri partiti che dell’illusione popolare di secessione od almeno di vere autonomie locali e regionali che cambiassero i soliti andazzi autodistruttivi di Mediterranea e sue parti. Non solo a livello regionale. Anche a livello di Nord andava tutto allo stesso modo, nell’AlleanzaNordista. I leader più in vista venivano subito epurati dal capo dei capi, a meno che non si trasformasseo in dei ligi signorsì occupati a farsi gli affari propri senza mai contraddire il condottiero dell’AlleanzaNordista, un omone furbo ma non astuto, trafficone ma incapace, vanitoso ma servile, bonario ma accidioso.

Proprio perché il periodo era comunque favorevole ad un movimento rivoluzionario secessionista, gli apparati di sicurezza avevano rapidamente asservito a loro tutti i livelli dell’AlleanzaNordista. Appena spuntava un capo o capetto lo convocavano e lo trasformavano in informatore. Le vie del condizionamento e della creazione di canali informativi sono infiniti in un mondo dove tutti amano servire chi sieda dietro una scrivania od esibisca un tesserino da potente.

Nell’AlleanzaNordista, pur in modo più disgregativo, era come dappertutto, in tempi ormai di dissoluzione ed ulteriore degenerazione di quello stravagante Stato di Mediterranea. Se uno andava a mettersi a disposizione, ad offrire servigi, e contemporenamente teneva i rapporti d’infamità con apparati di sicurezza dello Stato, andava tutto bene, era dei loro. Metti il “tuo” posto di lavoro al servizio dei capi di partito e sindacato, ti sottometti alla rete della famiglia domina la città e non solo la città, te la fai con qualche ufficiale od anche solo sottufficiale degli apparati di sicurezza della polizia civile e di quelle militari ed ecco che sei nell’ordine naturale delle cose. Sei amico di tutti e tutti ti sono amici, salvo poi scannarsi per mazzette da spartirsi od altri malaffari. Ma c’è comunque una base comune. Se sei al di fuori di questo giro infame ed insensato, magari hai un vero interesse od anche solo curiosità intellettuale per quello che quel o altro movimento dice di essere, ed ecco che vieni vissuto con ansia. Tutti si chiedono, in primo luogo i capi, che mai vorrà questo che viene lì e non vuole nulla per sé.

In effetti Vasco era uno del genere. Quando s’era iscritto alla sezione centro di Tauronia dell’AlleanzaNordista, il segretario RobèTaurinès era stato apparentemente gentilissimo ma s’era subito rivelato un viscido. RobèTaurinès era un ragazzotto affascinato da quei soldi sul tavolo che anonimi sottoscrittori gli lasciavano, senza voler ricevuta, per l’AlleanzaNordista ed il suo solo sogno era potervi mettere le mani sopra senz’essere scoperto perché la politica era per lui un gran bell’affare per chi sapesse profittarne. Figlio di commercianti viscidi e servili, sebbene non ricchissimi, voleva di più e più rapidamente. Era felicissimo di quelli funzionali alla sua visione, i comuni cittadini che davano il voto od, appunto, magari, mazzette di soldi, e null’altro, mentre viveva con ansi tutti gli altri, i perdigiorno o perdiserate, i collaboratori di altri d’altre frazioni differenti dalla sua ed ancor di più chi non fosse chiaramente indentificabile pur mostrandosi interessato ed ansioso di fare qualcosa.

CarlosAlbertutuRojo, quando si era fatto trasferire alla nuova dell’Istituto Pensioni di TauroniaNord era entrato in contatto con attivisti fascisti che s’erano subito distinti per assalti vari, contro cose più che contro persone, ai compagnuzzi del luogo. Da ambienti costoro frequentavano era nata l’idea di infiltrare l’AlleanzaNordista usando proprio lui, CarlosAlbertutuRojo. “Vai lì. Li tieni d’occhio. E ci riferisci, se c’è qualcosa meriti d’essere riferito.” Fu così che CarlosAlbertutuRojo, il fascistissimo e lecchino, divenne attivista dell’AlleanzaNordista e del suo sindacato, puntando subito a posizioni di potere, o che comunque a lui apparissero come tali. Non che col suo accento non proprio suddico ma tutt’altro che nordico potesse fare gran carriera politica, se non sfruttando la su posizione di impiegato dell’Istituto Pensioni. Dunque razzolò per i ristretti ambienti del sindacatino dell’AlleanzaNordista e, quando riuscì ad essere eletto, quelli gli permetteva d’accedere il modesto posto di consigliere di circoscrizione. Come sindacalista dell’AlleanzaNordista la sua posizione era un po’ originale. Il “sindacalista” lo faceva già per sé dando informazioni su tutti ai capi e capetti ed essendo il loro ruffianetto. Più che l’iscritto unico non poteva fare. Faceva allora, una volta la settimana, il “consulente pensonistico” presso il sindacato l’AlleanzaNordista. In pratica, dava informazioni che utenti ansiosi avrebbero potuto e dovuto avere da qualunque sportello dall’Istituto Pensioni e poi li invitava a lasciare eventuali offerte alla segretaria mentre uscivano. In realtà, sindacati veri, hanno gli Enti di Patronato che sono finanziati dallo stesso Istituto Pensioni oltre che da normali tesseramenti, se gli utenti di tali Enti ritengono di tesserarsi. Forse, avendo la faccia per chiedere soldi per sé, si ha pure la faccia per dire di lasciarli, all’uscita, alla segretaria del sindacato dell’AlleanzaNordista. Quell’attività presso il sindacato dell’AlleanzaNordista era in realtà complementare e strumentale ad analoga attività per sé. Comunque nello Stato di Mediterranea molti si dedicano a tali traffichii...

Appena a CarlosAlbertutuRojo era stato chiesto, o non so si fosse offerto lui stesso, di fornire notizie di Vasco, disse che era tuttora un pericoloso terrorista e dunque di stare attenti. Al che, l’allarme corse per tutti i parnaoici dell’AlleanzaNordista. Passò di bocca in bocca che Vasco si fosse infiltrato chissà per quale fine. Appunto, non erano i tempi. S’era quasi ormai al primo, breve, governo con l’AlleanzaNordista. È comunque incredibile, eppur corrente, come tra pidocchi vi sia sempre una spontanea intesa. Quella voce era così corsa inarrestabile. Vasco non fece nessuna provocazione, nessun discorso strano o non in sintonia col discorrere di federalismo (discorrere comune in quegli ambienti ed anche in altri allora sebbene quasi nessuno sapesse di che parlasse davvero), nessuna tresca segreta per reclutare chissacchi a chissaccosa. Era tuttavia il “terrorista rosso” “infiltratosi”.

Ah, al sindacato dell’AlleanzaNordista gli offrirono di prendere il posto di CarlosAlbertutuRojo. Lo fecero sia per convenienza, e per abitudine a metter tutti contro tutti, che per costume alla doppia faccia. Vasco capì, sapeva del resto delle voci messe in circolazione da CarlosAlbertutuRojo e cui tutti avevano creduto, e rispose che non era lì per soffiare il posto a nessuno. Allora, più apertamente, gli chiesero di fare lui il consulente pensioni presso la sede del sindacato dell’AlleanzaNordista. Vasco non disse loro esplicitamente che era illegale quel chieder soldi, di fatto bustarelle. Si limitò a far presente che per fare quel tipo d’attività occorre creare un ente di patronato e che, comunque, un utente voglia quel genere di informazioni deve andare o direttamente all’Istituto Pensioni oppure, appunto, da un patronato. Del resto, per un tempo limitato, Vasco aveva fatto in altro luogo, un luogo appena eretico rispetto all’AlleanzaNordista ufficiale, senza tuttavia che né lui né altri chiedessero soldi per generiche informazioni pensionistiche. L’aveva fatto del tutto gratis, anche dal punto di vista dell’utente che non dava né doveva dare assolutamente nulla a chicchessia. Nessuna “offerta” per sindacato o partito.

Dunque Vasco era divenuto il “terrorista rosso” “infiltratosi”, anche se stupiva quel non far nulla avrebbe fatto uno davvero tale. Non chiedeva i fatti altrui. Non proponeva stravaganze. Non cercava di farsi strada. Ah, certo, andava benissimo se interveniva per animare le riunioni o se andava, occasionalmente, ad attaccare manifesti. Una volta, forse per vedere che tipo fosse partecipò pure la moglie del capo regionale dell’AlleanzaNordista ad un attacchinaggio elettorale. Poi, generosa, affrì qualcosa da bere. Si dichiarò stupita quando il “terrorista rosso” chiese una cioccolata in tazza. Chissà che bevanda è la bevanda giusta, nel cuore di una notte non calda o di fine inverno o di fine primavera, dopo avere attaccato manifesti negli spazi regolari, per un “terrorista rosso” “infiltrato”.

Poi, quelle elezioni politiche furono vinte dal fronte un po’ raccogliticcio coi partecipava l’AlleanzaNordista che dunque andò al governo fino a che, dopo pochi mesi, non tradì del tutto su mandato di poteri vari se la comprarono e sfasciò quella breve speranza d’un governo democratico. C’erano allora delle periodiche adunate a Pontidutu, un luogo d’una antica scazzottata assunta a simbolo storico di quella AlleanzaNordista di fanfaroni. Lui andò, curioso di vedersi dal vivo quel “popolo” dell’AlleanzaNordista e d’assistere alla presentazione di eletti, Ministri ed altri.

Andarono su una corriera organizzata dalla sezione centro di Tauronia. Fu in quell’occasione che Vasco ebbe modo d’“apprezzare” tutto il viscidume di quel apparentemente gentile e capace segretario di sezione RobèTaurinès. Vasco s’era portato qualche libro per il viaggio. E dunque se la leggeva gustandosi le musiche, evitandosi le solite chiacchiere vane di altri partecipanti, e guardando fuori dal finestrino. Organizzato da RobèTaurinès, era stato messo in prossimità di dov’era seduto Vasco, con affianco una con cui apparentemente chiacchierava, un individuo con aria ed eloquio sbraitanti ed incarogniti che raccontava, con urletta isteriche, di un “eroico” cugino miliziano fascista il cui “eroismo” (un compagnuzzo, od altro avrebbe fatto lo stesso; non c’è da stupirsi!) consisteva nel collaborare con occupanti del momento cui ora denunciava conoscenti ora ricorreva per salvarne di forse “ingiustamente” arrestati. Avendo poi vinto l’altra parte, i “comunisti”, così diceva lo sbraitante, avrebbero ucciso l’“eroico” cugino. E lo ripeteva e lo ripeteva, dicendo che i comunisti erano e sono dei vermi o non sò cos’altro peggio di vermi. Ogni volta cercava di caricare di più disgusto che poteva quello sbraitare ripetitivo. Lo sbraitio continuò per tutta l’andata e per tutto il ritorno. Vasco se ne stava tranquillo a leggere. Non solo senza fare nessun commento. Del resto lo sbraitante sembrava così accorato, che evidentemente era o poteva essere sincero in quel tormentato ricordo d’un parente vittima di cose ormai lontane di mezzo secolo. Ma Vasco neppure sembrava turbato minimanente da quell’insistente sbraitare contro i comunisti. Se uno si sente di sbraitare... Anzi, credo Vasco ne fosse piuttosto divertito. Sapete, come lo sbraitare d’un cane non può distrubarvi da un piacere a da un riposo, perché mai lo dovrebbe uno sbraitare, magari soggettivamente giustificato (invece, oggettivamente, tutto è sempre relativo, pur in diversa dimensione da quella soggettiva, e con pro e contro che derivano dalla prospettiva), per furia “politica”.

In realtà, era tutto stato organizzato, appunto, dal segretario di sezione RobèTaurinès. Aveva informato il fascistissimo, pur allora nell’AlleanzaNordista, della presenza del pericolosissimo “terrorista rosso” “infiltrato”. Una battuta sul “dai, facciamogliela vedere lui che si crede così astuto da essere venuto a metter il naso tra noi grandi federalisti... ...perché non attacchi bottone con lui... ...o ti metti a parlare in modo che lui possa sentirti ...vedrai, è uno che s’appassiona alle discussioni... ...di certo interviene se ti sente...” Ed il resto era venuto da solo. Seppi poi che ne avevano concluso che Vasco doveva essere realmente un super “terrorista rosso” “infiltrato”, se se ne era restato così freddo di fronte ad una tale “super-provocazione” che era così urtante (ma per Vasco divertente!) anche solo per quella cantilena ripetitiva ed incarognita, che aveva disturbato un po’ tutti gli altri occupanti della corriera. Ma non Vasco, che evidentemente aveva una percezione differente. Sorrideva, tra sé e sé, di piacere per quella pubblica provocazione contro qualcuno che non era presente, visto che lui non era la persona evidentemente era stata presa di mira.

A Vasco capitarono anche delle stranezze, le poche volte che incontrò CarlosAlbertutuRojo, l’infiltrato fascista (questo sì infiltrato vero ed attivissimo, essendo uno di natura spontanemante sanguigna ed agitata). CarlosAlbertutuRojo, che non riusciva a non fingere d’essere fascista ed informatore d’un po’ tutti da quel lato là e dal lato del potere, continuava a sbraitare con Vasco che nel tale posto sperduto (posto dove Vasco aveva per qualche tempo lavorato) della regione la cui capitale era ed è Tauronia c’era un pericoloso terrorista condannato eppur riassunto all’Istituto Pensioni. In realtà non era vero. Era successa un’altra cosa. Qualcuno aveva detto a CarlosAlbertutuRojo che in quel luogo era stato riassunto in servizio Pluto, un “terrorista” di Tauronia condannato per talune (o per una sola) operazioni sanguinose pur non letali. In realtà, là, era stato ingiustamente mandato Vasco, che era stato assolto da ogni accusa precedente. CarlosAlbertutuRojo chiamava dunque Pluto Vasco, o Vasco Pluto, e poi s’infuriava con Vasco che, pur avendo ancor di recente, lavorato lassù diceva di non avere visto né sapere di Pluto. Pluto non c’era mai stato là. Pluto neppure era mai più tornato all’Istituto Pensioni. Appunto, nel circuito dei chiacchieroni e dei confidenti, s’erano passate le informazioni sbagliate oppure un’eventuale informazione giusta e senza scandalo (se non l’ingiustizia contro Vasco mandato in luogo sperduto senza motivo se non puro mobbing) era sta deformata fino a farla diventare errata e di cosa su cui i fasci ed altri malpensanti dei luoghi potessero scandalizzarsi.

Intanto, CarlosAlbertutuRojo se ne continuava coi suoi traffici da dipendente pubblico disinvolto tra “affari” privati, consulenze pensioni presso il sindacato dell’AlleanzaNordista (collaborazione poi interrotta e cessata, forse perché era solo un modo per farsi conoscere in nuovi ambienti con nuovi potenziali “clienti”) e altre attività come consigliere di circoscrizione dell’AlleanzaNordista, anche lì ben posizionato per avere file di clienti fuori dalla porta dell’ufficio circoscrizionale.

Con l’AlleanzaNordista organicamente comprata da parte dei poteri parassitari e relativi apparati di sicurezza, dunque non più necessitante di quell’ulteriore inflitrato fascista, oltre che in declino di consensi, per cui molto meno interessante per potervi fare gli affari propri, CarlosAlbertutuRojo avrà poi potuto dedicarsi ai fatti suoi sotto etichette più confacenti con la sua antica fede, sempre che non l’abbiano infiltrato da qualche altra parte. E sempre che sia ancora vivo ed in salute. Le vie del destino sono infinite. Chissà... ...È tanto ormai che manco da quei luoghi perduti e decadenti.

mercoledì 1 novembre 2006

Madri di merda 2. Franca

Madri di merda 2. Franca
by Georg Rukacs

Una di quelle famiglie calabresi, della campagna calabrese, degli anni ’10, ’20, ’30, con una dozzina di figli e figlie. Sopratutto figlie. Contadini poveri, cioé senza terra e senza lavoro. Il padre era andato in Brasile a cercar fortuna, ma non l’aveva trovata. Forse sono quelle cose che si devono fare con tutta la famiglia, ma non è che il viaggio per una dozzina di persone dovesse essere di poco costo. Figli nati a scadenze di 3 anni l’uno dall’altro. Altri del ramo largo della famiglia i soldi li avevano. Ma non loro. La madre, una faccia da alienata. Di quelle che si fanno trombare con disgusto e mettono al mondo poi con ancor più disgusto questi figli a scadenza regolare. Infatti, tra le figlie dominavano sessuofobia e frigidità. Poi un figlio, o il maggiore, o forse il secondo, era andato volontario in Spagna. Tornato, o forse già prima, doveva aver fatto il poliziotto, il questurino si diceva allora, in una città marittima del nord. Ma non doveva essergli piaciuto troppo, oppure gli era piaciuto di più altro, perché, pur restando statale, in guerra lo si ritrova bersagliere in Africa. Credo come militare di carriera. Prigioniero francese, a seguito della battaglia di Tobruk, poi dopo la guerra, dopo le prime incertezze se l’Italia avrebbe riavuto delle FFAA, continua a fare il sottufficiale dei bersaglieri in Friuli.

È quando è poliziotto in una città marittima del Nord, che tutta la famiglia lo segue, come spesso succede, o succedeva, con famiglie calabresi. Lui spendeva tutto lo stipendio in motociclette e macchine fotografiche. Quando a scopare, credo che la posizione di poliziotto gli permettesse di scopare in giro senza spendere soldi nei bordelli. Infatti, si vantava di conoscere tutti gli anfratti delle dismesse mure di cinta della cittadina. Comunque, anche se lui non contribuiva gran che al benessere della famiglia (del resto uno stipendio per una dozzina, alla fin fine era più saggio che se lo tenesse tutto, o quasi), la famiglia resterà poi nella cittadina, salvo qualcuna o qualcuno, o per matrimonio o per lavoro, finita o finito altrove.

A parte una, che era divenuta maestra, gli altri e le altre non superavano la terza avviamento, quando andava bene. Esser maestra, come essere avvocato, era uno dei miti di molte zone calabresi, mito che solo per taluni si traduceva in realtà. In questo senso, la maestra, Angela, era il mito della famiglia. Un po’ come una seconda capo famiglia. A primo s’atteggiava il militare, il sottufficiale dei bersaglieri.

Franca era più o meno nel mezzo di quella scala di nascite a ritmo triennale. Non era delle più vecchie, non era delle più giovani. Era del 1927. I capi della famiglia erano di fatto il fratello sottufficiale dei bersaglieri e la maestra, Nicola e Angela. Costei era o la maggiore o la seconda delle sorelle. Del resto anche il fratello poi bersagliere doveva essere il secondo. Credo che prima ve ne fosse un altro che non partecipava mai ad eventi di famiglia, chessò a sposalizi o comunioni. Non ho mai capito se fosse perché la moglie battesse o se vi fosse qualche altra ragione. Singolarmente, alcuni dei fratelli e delle sorelle ogni tanto gli facevano visita, ma, appunto, quando c’era qualche occasione di riunione comune non c’era mai. Può darsi fosse successo qualcosa col secondo, il bersagliere.

Franca s’era ritrovata in questa cittadina del nord con famiglia già poverissima, e che continuava ad esserlo, ed avendo finito solo le elementari. La maestra, invece, era già maestra. Angela. Era la più ruffiana delle sorelle. Di quelle con quel sorrisetto da tizie che la sanno sempre lunga e che fottono tutti. Contrariamente alle altre, tutte vittime della morale ristrettissima della famiglia, o semplicemente delle paranoie e fobie della madre e dei tempi, era pure più disinibita. Titillando uccelli e dando il culo ai cuginetti del ramo ricco della famiglia aveva trovato pure il modo di ingraziarsi zie ricche e di farsi da loro pagare il collegio per divenire maestra. L’unica della famiglia poverissima con l’allora ambìto diploma. Era un po’ ignorantella a dire il vero. Ma era comunque maestra e con tutti i titoli formali per insegnare nelle scuole elementari, cosa che farà. Forse era anche dal suo stipendio che, non so da quando, usciva qualche soldo per la famiglia al nord, famiglia con cui pure lei s’era trasferita prima di, dopo la guerra, sia per lavoro che per matrimonio, andare a vivere nella bassa padana.

Nella cittadina del nord, Franca, pressoché ancora adolescente, era stata mandata a servizio da due sorelle, una signorina, cioé zitella, ed una vedova di un musicista vaticano. Se ne vergognò sempre, anche se non mi sembra ci sia nulla di disdicevole. Meglio a servizio che in fabbrica, sopratutto se giovanissime. Probabilmente, le due glielo facevano pesare, che le davano da mangiare in cambio dei lavori di casa. E sopratutto era lei stessa e farselo pesare. Poi, con la guerra, s’era sistemata alla Sepral, l’ente di razionamento di guerra. Ne approfitterà, soprattutto dopo la guerra per fare o finire da privatista l’avviamento commerciale e poi per cercare di divenire maestra. Il primo ostacolo era l’esame di licenza media. Ma il matrimonio, ed ancor più le sue paranoie, le impediranno sempre di raggiungere tale suo sogno. Si fermerà alla terza, la fine, dell’avviamento commerciale.

Il matrimonio era stato uno di quelle cose che aveva voluto per sentisi come tutte e tutti. Una di quelle cose che si devono fare. Non le interessavano gli uomini. Non le interessava il cazzo. S’era sposata perché tutti si sposano. Quelle cose che si devono fare. Una di quelle cose che si fanno per dire agli altri, a cominciare dai familiari, che anche lei è come tutti e tutte.

Lui era una tutto casino e bar. Lavorava, come fattorino o lavoro simile in un cantiere navale. Uscito dal lavoro, motocicletta, bar e casino quando ce l’aveva duro. Tale era la sua vita. Aveva grandi aspirazioni, ma la sua vita era tutta lì.

Era dopo la guerra. Lui l’aveva vista a qualche fermata del tram, lei con le sua amiche o colleghe o conoscenti. Le era piaciuta. S’era fatto sotto. E siccome era “seria”, cioè vergine, gli aveva chiesto di sposarla. Lei, predestinata a fare la vittima, aveva detto di sì al matrimonio con uno che era all’opposto di ogni suo desiderio, semmai aveva desideri, e che l’avrebbe messa sotto irrimediabilmente. Il solo desiderio di lei era la normalità, sebbene lei stessa non sapeva che significasse. Un’aspirazione ad una normalità borghese, che lei chiamava tranquillità.

Al matrimonio lui non aveva una lira. Spendeva tutto al bar ed al casino! D’altro canto, sebbene fosse solo fattorino, pur con l’idea fissa di mettersi in proprio, cosa che poi farà sebbene non avesse specifiche competenze professionali in nulla (non era mai stato davvero operaio e tanto meno operaio con una specializzazione), non voleva lei lavorasse. Voleva la classica moglie che sta in casa e null’altro. Lui avrebbe continuato ad andare al bar. Lei serviva solo quando ce l’avesse avuto duro e per cucinare, lavare, pulire.

Siccome, nel classico sistema italiotico, già allora solidamente fondato, si “creavano” posti di lavoro, facendo licenziare chi già l’aveva, soprattutto le donne, lei, licenziandosi, poteva usufruire d’una rilevante buonuscita. Poteva essere la fine del 1949. Lui senza soldi. Lei con una lauta somma di liquidazione e buonuscita. Avrebbero potuto sposarsi senza fasti, e lei continuare a lavorare. Ma lui voleva la moglie donna di casa e lei, seppur avrebbe volentieri continuato a lavorare, voleva solo la normalità d’un matrimonio per andarsene da quella famigliona calabrese in cui nessuno era mai veramente stato a suo agio.

Così s’erano sposati con un matrimono fastoso ed erano andati in viaggio di nozze, il tutto coi soldi di lei, della sua liquidazione e buonuscita dalla Sepral. Sue amiche più smaliziate le dicevano, “uh, vedrai...” faccendole intravvedere le delizie del sesso. Ma lei se ne restava tutta vergognosa, arrossiva e davvero non gliene fregava nulla. Non era neppure di quelle si toccassero e poi, toccandosi, sognassero cazzi le penetrassero e le facessero sussultare di godimento.

La prima notte di matrimonio, come poi tutte le altre, era stata non solo un vero disastro ma una vera tragedia per lei. S’era sentita come violentata. Non solo non le era piaciuto. Le aveva fatto male e schifo, lui che la trombava. Certo, colpa anche sua, di lui. Ma erano predestinati così. Una la devi eccitare, perché ne abbia desiderio. Ed anche lei non volesse farsi delle sane trombate prima del matrimonio, meglio farla impazzire di desiderio, sì che poi lo cucchi con calore. Od almeno, farle venire voglia la prima volta che ci si trova in un letto faccia a faccia. Se poi, per lei, ci s’accorge che iniziare a trombare proprio quel giorno può essere una tragegia, nulla vieta d’aspettare, sempre che si sappia o s’intuisca come venire a capo nel problema. Se ti trovi un pezzo di legno, meglio farlo diventare, anche con un po’ di tempo, se ci vuol tempo, un bel corpo caldo che prenderlo subito e poi tenersi tutta la vita, nel letto e fuori, un pezzo di legno col buco. Ma lui voleva solo trombare e subito. Lui che voleva solo trombare. Lei che voleva solo un marito ma non aveva desideri, o se li aveva erano ancora troppo nel profondo dell’anima. Lui aveva trombato. Ma per lei era stata solo una sofferenza ed uno schifo. Cosa che le resterà sempre. E s’aggiungerà alla rabbia da rivalsa che già si portava dentro da sempre e che col matrimonio s’accentuerà.

Infatti, il primo figlio tardava ad arrivare. Lei rifiutava il sesso. Lo rifiutava psicologicamente anche se lui la trombava lo stesso ed a lei era stato detto che è dovere d’una moglie farsi trombare. Lei rifiutava suo marito. Quel seme che lui le schizzava dentro non la fecondava. Lei restava chiusa. Lui aveva ripreso con la sua vita tutta lavoro al caniere navale, bar, visite alla madre che abitava poco lontano da dove i due sposi novelli avevano trovato casa. Prima di restare incinta lei c’aveva messo ben un sei mesi. Restata incinta, la felicità di lei era stata di nuovo il sentirsi normale. Non la gioa del sesso, che non provava. Non la gioa d’un figlio. La “gioia” che se ora le chiedevano, soprattutto la sorella maestra, Angela, “Novità?!”, potesse dire che certo anche lei ora era normale ed era restata incinta.

Soprattutto Angela era infatti un po’ sempre stata, ed ora ancora di più diventata, la sua coscienza che la sgridava in continuazione se non era “normale”, se non faceva ciò che Angela non avesse approvato. Ed Angela, dietro i suoi sorrisi viscidi, in realtà non approvava mai nulla, di nessuno. Neppure del marito, che disprezzava e che aveva sposato come simulacro d’una integrazione nordica. Un basso padano che l’aveva chiesta in moglie. Lei subiva il fascino dell’autorità e si faceva inculare appoggiata alla scrivania, o piegata, contro una poltrona, nella direzione, dai direttori della sua scuola che lei, naturalmente, andava a leccare come fedele e collaborativa maestra. Prima, coi cugini calabri in Calabria. Ora, dai direttori della scuola. Sempre e solo per averne dei vantaggi. Io di dò. Tu mi dai. Ma con le sorelle doveva fare la severa, seppur viscidamente sorridente, sorella maggiore cui sotto sotto non andava mai bene nulla perché lei e solo lei era perfetta, cioé più furba, quella che le aveva fottute tutte e tutti divenendo, solo lei nella famiglia, maestra, La Maestra.

Nato il primo figlio, il marito di Franca s’era messo in proprio in società con un’operaio, e con l’appoggio occulto e ben ripagato di un ragioniere o pseudoragionere del cantiere navale ch’evidentemente gli aveva garantito del lavoro, almeno nella fase iniziale. L’operaio, il capo operaio della nuova fonderia, conosceva il lavoro. Lui curava il resto, il lavoro d’ufficio, anzi più che altro l’andare il giro. Poste, banche, clienti. Alla fine, era cozzato contro il socio ed era restato solo lui, padrone unico delle fonderia, che, negli anni ’50, lavorò a ritmi sostenutissimi. Qualche ristrettezza, all’inizio, che Franca aveva vissuto con tragedie a non finire. Ma poi i soldi erano arrivati. Altre tragedie da parte di Franca, la cui missione esistenziale consisteva nel tormentare sé stessa, il marito, i figli. Con la fonderia, avevano cambiato casa, andando ad abitare in un posto più prossimo, seppur non vicinissimo alla fonderia. Lì era arrivato il secondo ed ultimo figlio. Poi, traslocarono di nuovo, vicino, ora, dall’altra parte della strada, alla fonderia, non appena era sorta una delle tante palazzine nuove del periodo, in cui avevano affittato un appartamento.

Poi con gli affari floridi ed i soldi in discreta quantità, seppur per un effimero periodo, i sogni di ingrandimento. La costruzione d’una nuova fonderia fuori città, un appartamento di proprietà, oltre a vari altri acquisti, che tuttavia erano coincisi con una irrimediabile crisi del settore da cui la fonderia, priva di agganci politici, non era più uscita. Ciò che aveva permesso a Franca di dilettarsi in urla, bronci e rimproveri a quel marito “inetto” che s’era ricoperto di debiti, seppur, in realtà, i soldi mai mancheranno alla famiglia, e neppure qualche bene immobile fortunosamente acquisito e salvato.

Invidie rancorose verso tutti, innazitutto verso la propria famiglia ed i proprii figli, e imitazione della sorella maestra, per quel che poteva. Anche Angela, guarda il caso!, aveva due figli. Il maggiore di Angela aveva fatto ragioneria. Ecco che anche il maggiore di Franca, era stato obbligato dalla madre a far ragioneria. L’altro di Angela aveva frequentato il tecnico per geometri. Ecco che anche il secondo di Franca era stato obbligato dalla madre a divenire geometra.

Ma la storia dell’invidia verso i propri figli era continuata. Il più piccolo aveva poi fatto ingegneria. Finita la tesi, s’era scoperto un errore di calcolo che gli avrebbe rovinato il 110 e lode che altrimenti avrebbe avuto. Stava per rimettersi a rifare tutto il progetto dall’inizio, ora coi calcoli giusti, quando la madre, che si vedeva sempre di fronte la sorella Angela che la sgridava, l’ossessionava. “Ma quando finisci?!”, “Ma voi andare mica fuori corso!”, “Oh, ma quant’è che lavori!”, “Ma va, che va bene così!” “Ma allora finisci o non finisci?” e così via, tanto che lui, sottoposto a quelle lunghe e viscide pressioni s’era risolto a lasciar perdere e consegnare il progetto errato rimediando credo un 108 o 109 invece del 110 e lode che altrimenti avrebbe avuto. Finito, pur senza il 110 e lode, il professore della tesi l’aveva voluto come suo collaboratore. L’aveva messo a lavorare con lui e gli voleva intestare, a metà con la moglie del professore stesso, una di quelle ditte che tanti professori s’aprono come copertura d’un’attività parallela a quella ufficiale. In fondo era una prova di fiducia, oltre che di stima, intestargli una ditta. Naturalmente, il figlio minore di Franca aveva detto di sì. Non appena era arrivato a casa l’aveva detto. Ecco che Franca s’era vista di fronte la sorella Angela che la sgridava: “Ma come si può tollerare che uno dei tuoi figli possa avere un qualche successo in qualche campo... ...ma sarà poi successo?! E se ci sono dei problemi?! E se va male?!” In realtà le ditte del settore edile e delle costruzioni, è di quello che si trattava, vanno in genere bene e fanno soldi a palate. Ecco, che allora Franca aveva inziato ad ossessionare il figlio: “Ecco ti metti nei guai!”, “E se fallisce?”, “Sono solo preoccupazioni!” e così via. Tanto che il figlio, alla fine, era andato dal professore suo dicendogli che ne aveva parlato a casa e gli avevano detto di non farlo, per cui si trovava costretto a ritirare quel sì dato in precedenza. Il professore, che cercava evidentemente ingegneri collaboratori non per avere degli impiegati ma per fare soldi assieme, non l’aveva presa bene e, pur senz’alterarsi, gli aveva detto che dunque si vedeva costretto a chiudere lì la loro collaborazione. Ora, quel figlio, potrebbe avere soldi a palate. Invece, si trova a fare il pendolare tra Roma dove fa il capo ingegnere, ma con stipendio da dipendente, pur d’una grande industria del nord, e Genova dove è sia la sede centrale della sua azienda che la sua pseudo famiglia. Lasciatosi alle spalle “le preoccupazioni” ...immaginarie nella mente malata della madre, era finito a fare l’insegnante o il supplente. Disperato per un’attività senza senso, s’era poi rivolto ad un parente che, pur stimandolo, gli aveva trovato solo un lavoro non grandioso come ingegnere a Milano. Stufatosi anche lì per via d’un ambiente gretto ed d’una città fredda, aveva poi trovato un lavoro come ingegnere del comune a Genova. Lì la madre era felice perché, come dipendente comunale, era un “lavoro sicuro”. Soprattutto non essendo lui un corrotto, gli incassi non erano grandiosi. E poi era un lavoro senza prospettive, appunto per uno non corrotto. Un lavoro banale e senza prospettive rendeva euforica Franca, che non sarebbe così stata sgridata dalla sorella maestra, solo commiserata per quel figlio ingegnere e fesso. Alla fine, pur con delusione della madre Franca perché lasciava il posto pubblico dunque “sicuro”, lui è passato ad una grande azienda del luogo che l’ha poi mandato a Roma con un gruppeto d’altri ingeneri. Sempre meglio ch’ingegnere del comune. E fa l’ingegnere vero che fa anche progetti. Sposatosi, lui che avrebbe voluto avere figli, con una moglie che non li voleva e non ne ha avuti, fa ora il pendolare settimanale tra Roma e Genova, con la moglie impiegata, che fa la troiazza con tutti i colleghi ed altri gli raccontino con trasporto dell’ultimo libro o dell’ultimo disco o che, più banalmente, glielo facciano sentire duro. Franca è felicissima di questo figlio con “la testa sulle spalle”, che appena la madre ha una paranoia infettiva devastante la compiace e collabora, che appena il padre ha un raffreddore corre dai medici e chiedere quanti giorni abbia ancora di vita e s’offre di chiamare suoi amici per ricoveri speciali in grandi ospedali, e così via.

Il più grande ha invece fatto il “disgraziato”. Anche se non troppo in realtà. Non beve. Non si droga, né s’è mai drogato. Neppure ha mai fumato una sigaretta di tabacco. Non ha l’Aids né la sifilide. Non ha la Tbc. Non è gay. [Non che ci sia nulla di male se uno lo è...] Non ha particolari manie sessuali. E neppure frequenta siti internet porno.

Appena finita la scuola voleva andare all’università, sebbene la scuola non l’abbia mai troppo appassionato: è di quelli che s’appassionano al sapere ma non a quello codificate dagli altri. Era, tra l’altro, l’anno che davano la borsa di studio a tutti, il 1969/70. Doveva andare a Trento. Era bastata una telefonata di Angela a Franca: “Ma non lavora, ora che ha finito la scuola...? Certo che stare in giro, senza un lavoro...” che Franca cominciasse ad insultare il figlio, lo obbligasse a trovarsi un lavoro estivo, il fattorino di medicine dal grossista alle farmacie, e poi a fare tutte le domande possibili ed immaginabili in posti pubblici, “il posto sicuro”. Prima fece il trimestrale alle poste, su raccomandazione d’un parente repubblicano. Poi, ancora trimestrale alle poste, aveva vinto un concorso per due posti in un’ufficio pubblico ed assunto lì interrompendo quel lavoro da trimestrale alle poste. Doveva aver preso servizio agli inizi del 1970. Naturalmente, tutto lo stipendio lo dava alla madre che lo metteva in banca, perché, seppur in quel periodo la famiglia non fosse in condizioni floridissime, non aveva comunque bisogno del suo stipendio. E si passava le giornate, dalla mattina alla 7:45 alla sera 20:00 in ufficio, finché si fece furbo e cominciò a non fare più gli straordinari e a ridedicarsi a riseguire interessi suoi. Lavorava solo perche la sorella Angela aveva montato la testa di quella scema di Franca. Poi s’era sposato. E s’era trasferito in una metrolopi del nord con moglie e figlia. Era allora facile, per chi lavorasse in quell’ufficio pubblico avere trasferimenti verso il nord, infatti volevano tutti andare verso sud. Sfrutterà l’opportunità di essere in una città universitaria per fare, poi, più tardi, l’università.

La madre, un giorno, cominciò a fissarsi che il figlio maggiore dovesse essere un grande capo rivoluzionario. Andava in vacanza, chessò, in Turchia, e se c’erano dei disordini in Polonia, Franca s’agitava tutta di reale preoccupazione e terrore che lui ne fosse la causa e si stesse mettendo nei guai. Sì, lo so che la distanza, anche geografica, è notevole, ma tale era la “logica” di Franca. Appena i media davano notizia di qualche episodio di terrorismo, era il periodo!, ecco che lei, subito agitatissima, cercava di localizzare il figlio per vedere insomma se fosse in qualche luogo regolare oppure potesse essere stato lui. Poi, lo riconosceva regolarmente negli identikit. Uomini e donne, alti e bassi, grassi e magri, giovani e vecchi, essì eccolo era proprio il figlio, magari appena camuffato. Ora che il figlio è distante, e lei non sa bene dove sia, è convinta che sia Bin Laden, sebbene gli manchino forse 20 o 30 centimetri per poterlo essere anche solo in lunghezza. Se un giorno vedete sui media un “tappo” tra poliziotti giganteschi dei corpi speciali che, dopo lunga assenza dall’Italia (e soggiorno non in aree islamiche), è stato arrestato come sospetto Bin Laden, tranquilli!, è il figlio maggiore di Franca e le uniche “solide” prove sone le telefonate fra Franca e la sorella Angela. Di certo lo avrà riconosciuto tra gli “attentatori” [le foto dell’FBI, lasciamo stare se fondate o meno; qui non importa] dei due grattacieli a NY.

Naturalmente la sorella, le telefonava: “Come va il figlio grande...”. E lei, Franca si sentiva trafiggere da quelle allusioni e sospirava si terrore di quel figlio che [nella mente malata di Franca!] sollevava le plebi polacche se andava in viaggio in vacanza Turchia, e che poi era regolarmente in tutti gli identikit di “brigatisti”. E lei Franca comincio ad estrinsecare la sua “preocccupazione” con tutti, per quel figlio grande capo rivoluzionario ...secondo le indebite credenze della madre. Parlava... parlava... Telefonava ...telefonava.

Lui, nel frattempo, al nord-nord dove s’era trasferito da quella cittadina di nascita nei dintorni della linea gotica, se n’era andato da casa (da moglie e figlia) ed aveva vissuto con altre ragazze. Un giorno, non so se a seguito di quei discorsi e telefonate della madre che il figlio dovesse essere un grande capo terrorista, il figlio fu veramente arrestato. Doveva essere la metà giusta del 1981. Fu arrestato a casa, la mattina prestissimo. Senza armi né indosso (stava domendo, nudo da trombate notturne con la bimba abitava allora con lui), né in casa. Portato nei sotterranei della Questura, dove restò una decina od una dozzina di giorni, lui si mise tranquillo a leggere dei libroni. Un’enciclopedia delle scienza e della tecnica in volumone singolo, I Demoni di Dostojevski, e non sò cos’altro. Era una cella piccola, col letto inclinato di cemento e bitume, senza fineste e con la luce sempre accesa. Il primo giorno neppure gli dettero da mangiare. Poi, dopo l’interrogatorio, forse il secondo giorno, od il terzo, gli dettero del pesce incartato che sembrava colla e quindi forse non era piaciuto ai secondini avrebbero dovuto dargli quello che arrivava non sò da dove. Poi gli arrivarono succulente cose da casa.

Intanto, i suoi gli avevano trovato un avvocato. Un imbecille. Un sinistro. Come può essere sinistro un imbecille che decida di fare l’avvocato penalista e simpatizzi, o dica di simpatizzare, per Il Manifesto. Naturalmente all’avvocato dissero: “Gli dica di confessare!” Lui invece all’interrogatorio tenne dapprima una linea molla: “Guardi, preferisco non rispondere per ragioni etiche.”

Ve l’immaginate uno che s’è letto tutte quelle cazzate sullo Stato borghese, sulla repressione, che poi si trovi tra poliziotti che neppure lo pestano ed un procuratore furbo che appena lui guarda verso la finestra (piuttosto lontana, e per riflesso condizionato non con intenzioni di saltare giù), esce e fa entrare un poliziotto che tira giù la saracinesca, e poi fa tutto il moderno: “Giocherò a carte scoperte...”. Si vede che per lui era un gioco. E poi faceva tutto l’aiutante ed il furbastro. Infatti, sapendo chi era l’avvocato, fece una breve pausa, per uscire dalla stanza dell’interrogatorio e dare tempo all’avvocato di sbottare: “Ma io non la difendo! Lei nega tutto!” E che alla risposta, “Ma guardi che non ne so davvero nulla di tutte queste storie che mi dice questo qui...”, farfugliò un non meno delirante: “Possimo vedere di fabbricare un alibi...” Ma che vuoi “fabbricare”?! Erano tempi che anche gli alibi più solidi venivano smontati arrestando ed incriminando i testimoni, così che divenuti imputati non potessero più essere testimoni. Al che, alla ripressa dell’interrogatorio, con quell’imbecille d’avvocato, lui passò da quel “Preferisco non rispondere per ragioni etiche.” ad un “No, non ne so nulla.” Finito l’inutile interrogatorio, se ne tornò nei sotterranei della Questura, tra poliziotti che strusciavano la ringhiera per bloccarlo nel caso lui si fosse lanciato nel vuoto delle scale e facevano chiudere l’entrata principale nel caso lui fosse corso verso la strada. Un giorno, dopo un dieci o dodici giorni di soggiorno totale lì, fu portato in un carcere speciale, quelli di massima sicurezza.

No, non ve l’immaginate. Non importa. C’è chi se i poliziotti lo pestano dice tutto quel che loro desiderano. Oppure dice tutto quel che loro desiderano perché non l’hanno pestato. E tanto più non ha magari nulla da dire, tanto più dice e dice per compiacerli e compiacersi. Ci sono quelli che odiano “il nemico”. E quelli che devono divenire amici di tutti. Nulla di tutto ciò nel caso di questo ragazzo arrestato. Era un curioso. Era davvero incuriosito da quella cosa inaspettatamente capitatagli.

All’uscita dall’interrogatorio, l’avvocato informò, suppongo, la famiglia che il figlio non aveva confessato. Aveva “negato tutto”. Al che nuovo tracollo psicologico di Franca che ricominciò a telefonare a tutti: “Ditegli, di confessare!”, “Confessa ed esce!” E poi a chiedere, sempre per telefono: “A me dovete dirlo cosa ha fatto!” Passando pure a cose più dementi del tipo: “Ma si drogava? Ecco, si drogava e avrà fatto quel che ha fatto perché era drogato.” C’è una certa logica naturalmente, nella pazzia: o uno è “marcio” oppure è deresponsabilizzato per esempio dalla droga o da altri eventi. “Ditemi dove teneva le armi, gli esplosivi, gli elechi dell’organizzazione, ...che così li facciamo sparire prima che la polizia li scopra!”

Le telefonate, naturalmente, erano intercettate. Infatti, proprio alla vigilia del trasferimento in carcere, gli andarono a chiedere, visto che non “crollava”, se fosse drogato. ...dopo dieci giorni che se ne stava lì tranquillo, tranquillo. Forze volevano offrigli una bustina o non so cos’altro di qualche sostanza...

In carcere stessa tiritera di Franca: “Ma com’è che sei così allegro?!”, “Ma perché sorridi e ridi?!”, “Perché scherzi?!”, “Pensa ad uscire!”, ed altre demenze tanto che lui, disgustato, chiese che i genitori non fossero più ammessi ai colloqui (così si chiamano le visite in carcere). Lo tenevano in carcere. Che almeno lo proteggessero da familiari rompicoglioni!

Franca continuava su quella linea con tutti. Che delinquente, che terrorista, che drogato [abbiamo già detto, forse, che non ha neppure mai fumato tabacco, né usato psicofarmaci]. Quando il figlio minore di Franca si sposò, fu quando il maggiore era ancora dentro, il commento della fidanzata fu: “Ecco, mi tocca sposare il fratello di un delinquente.” Quando lui fu uscito, stesso tono da parte di tutto il numeroso parentume. Certo c’era chi era più elegante e meno, o non, scemo. Ma c’era pure il solito parentume.

Verso la fine del 1987, lui era già fuori da un tre anni, l’ex-moglie, sempre più gelosa che la figlia non fosse tutta sua, gli tirò un bidone sulla base del discorso: “Natale coi tuoi e Pasqua con chi vuoi”, cioè Natale la figlia lo passa con me, tutti i Natali, e a Pasqua, magari, può pure vedere il padre. E non gliela fece più vedere. Franca, di fatto, riempì a suocera di soldi e sostegno per quella saggia decisione. E così fecero il padre ed il fratello, il marito ed il figlio minore di Franca. Motivazione ufficiale: “sennò non la fa più vedere neppure a noi” (...“e che gli racconto poi a mia sorella quando le telefono o lei mi telefona per sgridarmi?!”) Certo la colpa doveva essere del figlio se l’ex-moglie non gli faceva vedere più la figlia. Era un normale, normalissimo, sostegno tra paranoici. I paranoici s’intendono e si sostengono sempre tra loro. Certo, le forme possono cambiare... qui la forma fu questa. “Lei non ti fa più vedere la figlia. Noi la ricopriamo di soldi.”

Franca, invidiosa dei figli, divenne pure invidiosa della nipote. Invidiosa che fosse felice col suo ragazzo, collaborò coll’ex-moglie (la madre della “bimba”) perché il ragazzo della nipote sposasse un’altra, dunque mettendo fina all’amore tra i due, e pure in malo modo (fu un frettoloso matrimonio fatto combinare dai genitori di lui, per liberarlo da quella “figlia d’un delinquente”), e “liberando” così la nipote per farla irretire da una setta. Lo sapete come va il mondo. Se lavori gratis e dai i soldi ad una chiamiamola Settology quelli sono delinquenti che t’hanno condizionato ed asservito. Se, invece, la setta t’asserve e spilla soldi e lavoro professionale gratuito è una setta d’un “padre” della compagnia chiamiamola dei Gessiti, ecco che è cosa sana e santa e che tutti si guadagnano il paradiso.

Di individie ne avevano a valanga pure all’interno della famiglia d’origine. Il fratello maggiore o pseudo-maggiore, il bersagliere, da sempre senza figli, era andato a vivere nello stesso paesone della sorella Angela. Faceva comodo a tutti perché aveva sempre dato soldi ai figli di Angela. Ormai pensionato, malandato, abbandonati anche i vari floridi lavori da pensionato (rappresentanze di saponi in polvere vari, credo), gli era morta la moglie. Era ormai un peso per Angela, averlo nello stesso paese e con la prospettiva di doverselo prendere in casa o comunque d’assisterlo, sebbene, in realtà, avrebbero potuto farlo assistere senz’oneri per nessuno. Così, con Franca, gli tirarono un bel bidone. Trovarono una baldracca sicula con figli ma senza marito (deceduto suppongo), sorella di dei tizi che Franca e marito avevano vagamente conosciuto in passato perché abitavavno nello stesso palazzo ed avevano un negozio di ferramenta nei pressi. A questo povero fratello malandato, fecero vendere tutto (villetta, auto) e gli fecero sposare quella baldracca. Si trasferì in Sicilia, a casa di lei, o di lei e figli. Gli presero i soldi della casa venduta ed altri aveva da parte. Lo tennero in vita il tempo giusto per avere la pensione di riversibilità dello Stato. Poi l’ammazzarono. In modo “pulito”, certo. Uno è malandato. Umiliato da qual matrimonio del tipo: “ti scarichiamo a quelli che così t’assistono”. E quando non servi più, perché i soldi te li han presi tutti ed il tempo per la riversibilità della pensione dello Stato è maturato, te la mennano al punto che vivi la morte come una liberazione.

Quando il figlio “terrorista” o “delinquente” fu assolto, poteva essere primavera del 1990, fu un colpo per tutti. Ci furono parenti sbiancarono. Altri ebbero crisi di nervi. Per Franca fu un colpo durissimo. Riempì di ancor più soldi l’ex-moglie che operò per farlo mettere sotto mobbing e poi farlo licenziare dal posto pubblico dove era stato di conseguenza riammesso, oltre che far far irretire la nipote da una setta d’un “padre” della compagnia chiamiamola dei Gessiti. E, naturalmente, fu diffusa la balla, invero non troppo auto-consolatoria, per loro, del “l’hanno assolto per insufficienza di prove.” In Italia, l’insufficienza di prove non esiste da forse un tre decenni. Certo, lo dicono e lo scrivono che c’è tuttora. Ma sono balle. Chi è assolto lo è e basta. Anche logicamente non significa nulla “l’insufficienza di prove”. Certo, che se hanno le prove, o ritengono di averle, o fingono di averle, uno lo condannano. Chiunque non sia mai stato neppure denunciato è sempre per “insufficienza di prove” che non lo è stato. Tutti gli incensurati sono incensurati “insufficienza di prove”! Una cosa è discutere, dei casi famosi, questo non lo era, di innocenza o colpevolezza dal punto di vista storico. Ma da, appunto, forse un trent’anni, dal punto di vista legale, s’è assolti o condannati e null’altro. Non esistono più formule intermedie. ...anche se appunto tutti (inclusi procuratori ed avvocati dello Stato) continuano a dirlo. Questo parentume lo diceva per invidia e per autoconsolasione del tracollo subito da quell’assoluzione.

Dunque, Franca, oltre a tutte le cose precedenti, ed oltre a cose contro un po’ tutti, per questo figlio maggiore che non s’era mai granché sottomesso alle sue paranoie e pazzie, voleva, certo “per il suo [del figlio] bene” [è il leit motif di tutti gli alienati!], che “confessasse”, lo voleva condannato (dunque pubblicamente ed ufficialmente menomato in qualche modo), ed ha di fatto pagato, è quasi un ventennio ora, la nuora prima per non fargli vedere la figlia (che dopo la laurea s’è fatta suora con vocazione alla contemplazione ed alla clausura), poi per farlo mobbizzare e licenziare dal posto pubblico in cui era. Più varie altre infamità connesse ancora in corso.

È una vita così... Sono delle vite così...

...Ci riferiamo a quelle di invidiosi e folli.

martedì 31 ottobre 2006

MaximaImmoralia. Squallide storie di bustarelle pubbliche. Rosaria e Maria, e tutti gli altri. 31.10.2006

MaximaImmoralia. Squallide storie di bustarelle pubbliche. Rosaria e Maria, e tutti gli altri. 31.10.2006
by Georg Rukacs

Prima metà anni ’90, tendenti verso il mezzo degli anni ‘90. In un posto sperduto di Mediterranea, naturalmente. Città di Tauronia. Ufficio Pensioni Speciali di Miraflores. Rosaria e Maria. Rosaria, sikelica. Maria, calabrica. Isa, la capufficio, sikelica. Il capo reparto, Cianko, sikelico. Il direttore, campanico, sedicente calabrico-campanico.

Non che fossi arrivato subito lì, dopo i nove anni di sospensione. M’avevano mandato nel posto più distante della regione. Certo c’erano delle ragioni. Più delle infamità, invero, che delle ragioni. Quando uno viene sospeso, se poi la sospensione cessa, ritorna, salvo circostanze particolari, nel luogo da cui è stato sospeso. Nel caso specifico sarei dovuto ritornare nella sede centrale di Tauronia, la capitale di quella regione di Mediterranea.

C’erano tuttavia delle circostanze decisamente aggravanti. Non ero stato sospeso per ragioni d’ufficio. Non ero un corrotto. Neppure sospettabile d’esserlo. Neppure mezza voce. Ero troppo fanatico o troppo scemo o entrambi. Lo sono restato.

Di corrotti, e ben corrotti, sebbene poi prosciolti, ne ho poi incontrati. Li avevo visti sui giornali tra ville con piscine che impiegatucoli neppure si potrebbero sognare. Prosciolti, erano stati premiati. Erano ben inseriti nel sistema. Li avevano riammessi dov’erano prima e poi promossi capetti e capi. Il magna-magna s’era fatto abbuffata ancor più alla grande.

Il mio, durato nove anni, era un processo per terrorismo. Terrorismo rosso. Ero stato assolto. Tra l’altro in Mediterranea, checché ne scrivano gli scribacchini di regime, e chécché ne dicano tutti gli invidiosi da strada, tutte le assoluzioni sono con formula piena. Non esiste l’insufficienza di prove. In effetti, se si volesse rimenarla con l’“insufficienza di prove”, tutte le assoluzioni, come tutti i neppure processati, sarebbero per “insufficienza di prove”. Per cui, se propri fa piacere ai soliti forcaioli, si potrebbe dire che tutti coloro che neppure hanno mai avuto che fare con i circuiti giudiziari, inclusi i vari Travajùn moralisti senza moralità, non ne hanno avuto a che fare per “insufficienza di prove”.

Dunque, prima aggravante, non ero un corrotto, né sospettato, né sospettabile d’esserlo. Seconda aggravante, funzionario, con la prescritta laurea, quando la stragrande maggioranza la prescritta laurea non la ha. Sono tutti illegali. Nel settore pubblico tutto è illegale, in Mediterranea. Contano altre cose. Non le leggi, non le forme, neppure le sostanze. Conta altro. Poi, aggravante decisiva, c’era una ex-moglie, con cui non ero in contatto, che nel frattempo s’era fatta sindacalista “regionale” d’un sindacato di cui lì era l’unica iscritta. La solita corrotta, funzionaria senza laurea e con altre invidie contro tutti e tutti, ma ben centrate contro di me perché ero il “rivale” per una figlia da lei follemente percepita come suo unico vero simbolo d’esser qualcuno.

Quel sindacatino di cui lei era in quella città e regione l’unica iscritta e dirigente era una di quelle cose che succedono proprio nel settore pubblico. Forse era un sindacatino presente nella capitale dello Stato. Ma lì, in quella regione, c’era un’unica iscritta, e quindi dirigente unica di quel sindacato, che partecipava alle riunioni regionali del soviet sindacale della regione in cui era ed è d’obbligo l’unanimità. I direttori sono tutti sindacalisti o sindacalizzati che sono avanzati grazie ai sindacati e che non hanno grane solo se tutti i sindacati li sostengono unanimi. Che significa che devono farsi sostenere da tutti i sindacati. Quando ero ancora sotto processo, forse ancora in detenzione, parenti squinternati (uno si sceglie sé stesso, chi vuole essere, non si sceglie i parenti, né è d’essi responsabile) avevano, tra altre follie del periodo, chiesto “consiglio” all’ex-moglie che aveva detto loro: “Lui confessa. Si fa condannare. Poi lo riammettono in servizio senza problemi.” Non avevo confessato. Anche perché, a dire il vero, non avevo nulla da confessare.

Assolto, un’accoglienza speciale era pronta. S’era scatenata un’autentica invidia ribollente in tanti, troppi, parenti prossimissimi inclusi, che fossi stato assolto. Infatti, appena i solerti parenti prossimi avevano informati “preoccupati” l’ex-moglie che ero stato assolto (già la pagavano e sostenevano da qualche anno perché non mi facesse vedere la figlia [non si pensi ad alcuna ragione strana, parenti ed ex-moglie folli a parte: mai insidiati bambini, tanto meno figli e figlie!]), appena questa si riebbe dal collasso e dalle esplosioni la colsero allorch’ebbe la notizia, corse dal direttore regionale (del resto lei lavorava proprio alla sede regionale), oltre che da altri vari sindacalisti che lei sapeva sensibili ai suoi deliri (in particolare, una stramba confidente di polizie d’un sindacato sinistro), a dire che ero stato assolto, ma che ero sicuramente colpevole, e che non solo ero sicuramente colpevole di crimini gravissimi, ma ero un vero delinquente che, se riammesso in ufficio, avrei creato chissà quali catastrofi. Il direttore regionale rispose che non riammettermi in servizio proprio non potevano, tuttavia avrebbero fatto il possibile per farmi rapidamente licenziare.

Mi mandarono dapprima in un posto dove m’occorrevano almeno cinque ore di treno, più altro tempo sui mezzi pubblici urbani, per raggiungerlo e tornarne indietro. Dalla direzione regionale si vergognavano a fare quel provvedimento di riassegnazione, tanto quel provvedimento era illegale ed al di fuori d’ogni costume, ma tanto loro sono la legge ed alla fine fanno quello che vogliono senza alcun controllo. Così fecero fare il provvedimento alla direzione generale nella capitale. Nessuno, neppure lì, ebbe il coraggio di firmarlo. Sotto ad esso v’era solo una sigla incomprensibile senz’alcuna indicazione del nome di chi l’avesse assunto. Raggiunto il posto sperduto, il primo mese neppure mi dettero lo stipendio. Mi venne rifiutato anche un anticipo. Solo dopo riuscii a farmi dare regolarlmente lo stipendio ed i cospicui arretrati mi spettavano dopo 9 anni di sospensione.

Poi vi fu uno dei soliti concorsi burla, sebbene non tutti lo passassero, per passare funzionario. Io, comunque, almeno la laurea l’avevo. In genere non l’aveva quasi nessuno. Le leggi le fa non so chi. Le “leggi” interne le fanno le mafie sindacali e dirigenziali, per cui l’abbuffata delle promozioni a quasi tutti l’avevano decisa loro. Naturalmente, passato funzionario, il posto non c’era. Ancora meno per rme. Ad alcuni lo davano. Per la maggioranza non c’era. Presi il regolamento interno. Il regolamento interno, piuttosto recente, e le stesse leggi, piuttosto recenti, dicevano che si può essere adibiti a mansioni inferiori solo per tre mesi. Dato che la promozione era retroattiva, i tre mesi erano già passati. Pretesi il posto mi competeva. Non mi fu dato. Attesi me lo dessero. Andavo e tornavo da quel luogo sperduto, con ore ed ore di treno all’andata ed al ritorno e cambi di treni in stazioni varie, e sedevo lì senza far nulla perché non c’era lavoro per me.

Intanto i direttori sia locali che regionali che centrali cambiavano. Fu solo dopo un lungo periodo che mi dettero un lavoro, come capufficio, nella sede più sbagasciata di Tauronia, dove comunque non fui trasferito. Fu solo un’assegnazione provvisoria. Naturalmente, anche lì era subito arrivata la rete dei sindacalisti mafiosi di Tauronia. Affianco a chi non faceva nulla per vocazione, c’era chi sabotava per fede. Anche lì, la rete dei sindacalisti sinistri folli d’era attivata... C’era anche chi lavorava moltissimo. Un paio. Eccezioni. Il direttore del loco, un sikelico credo, o comunque un suddico, era naturalmente lì in transito e l’unica cosa che voleva era mettersi contro un qualunque sindacato. Già il direttore precedente era stato rimosso e mandato alla sede regionale ad occuparsi di “statistiche” (in pratica non faceva nulla; quando dalla capitale chiedevano numeri, lui contattava la varie sedi per farseli dare e poi li sommava: cosa da licenza media inferiore) perché il giorno in cui il direttore generale era passato in visita a quella sbagasciata sede, un sindacatino di estrema sinistra (un sindacatino la cui nascita era stata favorita proprio dal direttore generale) aveva distribuito un volantino contro il direttore.

Mentre lavoravo lì di gran lena, nonostante menefreghismi e veri e propri sabotaggi, uscì (o forse era già uscito poco prima) un concorso regionale per trasferimenti. Naturalmente feci domanda per tornare dove ero in origine, prima della lunga sospensione. Il posto, in quella sede, e per la mia qualifica, nel bando di concorso c’era. Anche più d’uno. Fui, naturalmente, il primo, primissimo, della graduatoria del concorso, perché era un concorso per titoli e nessuno con la mia anzianità ed altri titoli aveva aveva problemi di trasferimenti. Secondo il concorso sarei dovuto dunque ritornare nelle sede centrale di Tauronia.

Naturalmente, in un settore pubblico dove tutto è burla, ai risultati del concorso non fu data esecuzione. Ero primo in classifica e non fui trasferito dove, secondo il concorso (concorso specifico per trasferimenti), mi spettava. Mi dissero che, o restavo di fatto, senza neppure un trasferimento formale (sì che poi potessero dire che ero stato io a voler restare nella sbagasciatissima sede in cui l’avevano mandato), nella sede dove ero stato provvisoriamente assegnato, oppure nulla. Scaduto il trasferimento provvisorio dove mi trovavo, mandai una lettera in cui scrissi che mi spettava il trasferimento definitivo secondo concorso e che, comunque, scaduta l’assegnazione provvisioria in quella sede, non potevo certo restare di mi iniziativa lì dov’ero. E me ne tornai nel posto che raggiungevo e lasciavo con 5 ore di treno (quand’arrivava; quando c’erano problemi di concidenze o disastri sulla linea, dovevo tornarmene indietro e darmi malato) e dove non facevo nulla dato che il posto per me, secondo la mai qualifica, neppure c’era. Intanto i direttori regionali si susseguivano.

Alla fine, arrivai lì a Miraflores in Tauronia. Mi trasferirono lì: “O vai lì, o resti là in mezzo ai monti a fare il pendolare per sempre.” Anche lì, lungue dispute sulla mia qualifica che non avevano alcuna intenzione di riconoscermi. L’avevo. Ma nel settore pubblico contano solo le mafie. Le chiamano cordate od altre connessioni o pressioni irresistibili. Ma sono solo mafie. Pretesi il posto da funzionario. Prima il tribunale amministrativo dette ragione a me. Poi fu lo stesso tribunale amministrativo a dire loro che facendo ricorso e presentando una qualche motivazione anche del tutto fasulla avrebbero dato ragione a loro. Così fu. Allora inizai a lavorare davvero.

Naturalmente, dopo tutte le lunge ed alterne traversie e scontri, il direttore campanico, il signor Pappone, divenuto dirigente per mafie sindacali di sinistra e poi passato ad altre coske, uno di quelli che si considerano più guappi di tutti e devono pure atteggiarsi a tali, fece una lettera (un ordine di servizio) in cui m’incaricava in pratica di fare tutto dichiarando che io sapevo fare tutto. Una buffonata. Con le stesse impiegate dei mille lavori avrei dovuto fare che mi dicevano che il lavoro era loro e non volevano altri tra i coglioni. Tanto lo sapevano tutti e tutte che gli atti deliranti del direttore erano solo scemenze in atteso di trovare come fregarmi. Finii dunque a fare una delle tante cose, quella più in vista (nella lettera o ordine di servizio, non più in vista come “prestigio” od altro che non mi interessava), erano nella lettera tuttonica del direttore e dopo avere chiesto alla capufficio di uno dei due differenti uffici ai quali ero stato assegnato in contemporanea, pur non potendo dividermi in due pezzi.

Ed iniziai a fare le pensioni speciali. Tutti seguivano lunghi corsi. Siccome io dovevo essere onniscente, dovevo farle per onniscenza. Mi lessi un po’ le circolari. Poi, le due impiegate le facevano, Rosaria e Maria (credo avessero paura, dato la fama di cui ero stato circondato), quando chiesi loro che dovessi fare me lo dissero. Anzi, si misero a “studiare” con me. Speravano evidentemente che le cose andassero per le lunghe e che il lavoro non facevano in due non lo facessimo neppure in tre. Loro più o meno sapevano quel che dovevano fare. È che non gli andava di farlo. L’ufficio era il loro potere. Il potere di non fare. In Mediterranea funziona così. Hai un posto intoccabile. Non fai. Dunque sie potente. Ed incassi.

Quando arrivavano utenti, se li facevano sedere di fronte alla scrivania e con ara pomposa dicevano, che avrebbero visto, avrebbero valutato, avrebbero esaminato il caso, avrebbero fatto tutti gli accertamenti. Sospiri. Sorrisi. Era un gioco tra gatti e prede. Tra corrotte e polli.

Invece era tutto molto semplice. C’erano dei requisiti. Si trattava di vedere se ci fossero. Ad ogni modo, in genere, eventuali distrazioni venivano corrette dal computer che ti rispondeva che i dati non erano corretti od i requisiti non sembravano sussistere. Le tessere coi contributi di quei futuri pensionati speciali erano predisposte da loro uffici del personale che sembravano discretamente efficienti, od efficaci, per cui era tutto chiaro e ben fatto per poterci lavorare sopra. Si trattava di fare delle medie non complicate. Si doveva poi accedere a delle banche dati centrali per chiedere i dati non s’avevano già sott’occhio. Se non c’erano subito, si inseriva la richiesta, per cui si doveva attendere, ma non molto, che i dati contributivi arrivassero. Per cui, ogni tanto, anche quotidianamente, se non s’aveva altro da fare, si doveva controllare fossero arrivati. C’era pure un ulteriore vantaggio. Che le liquidazioni erano provvisorie, dato che i programmi dei computer non erano programmi definitivi. Per cui, in attesa ci fossero i programmi giusti, si facevano delle liquidazioni appunto provvisorie con lettera all’utente che la liquidazione non era da considerarsi definitiva e che eventuali indebiti da futuro ricalcolo sarebbero stati recuperati a liquidazione definitiva. Tra l’altro le pensioni erano in genere relativamente alte. Non farle poteva essere un buon affare. Si sa che tutta la corruzione sulle pensioni si basa sul non farle. Per cui, si accumulano arretrati e poi, l’utente, pur d’avere il dovuto, sgancia. Certo c’è anche chi sgancia anche se la pensione viene fatta subito. In certe remote o non remote aree dove si vive l’ufficio pubblico come estraneo, che quello che ti dà cade dal cielo, chi va in un ufficio pubblico dove si erogano soldi va ben provvisto. Apre la porta coi piedi, si diceva un tempo. Dipende probabilmente anche dalla “reputazione” che si crea e ci si crea. Se l’utente si vive come schiavo anziché come cittadino, e l’impiegato come boss anziché come lavoratore, gli ingredienti corruttivi sono ben combinati. Se invece uno è cittadino e si trova fronte lavoratori che devono dargli un servizio dovuto, gli ingredienti della corruzione mancano.

Io ero piuttosto freddo. E se solo si provavano anche solo ad alludere divenivo ancora più freddo. In poco tempo fu tutto aggiornato. Spesso arrivavano utenti con tutta la documentazione completa. Consultavo le banche dati. Se i contributi c’erano tutti, e loro mi chiedevano ansiosi quando sarebbe stato possibile avere la pensione fatta, rispondevo gelido che per quel che mi riguardava l’avrei immessa nel computer entro un paio d’ore e che poi sarebbe tutto dipeso dai tempi tecnici del centro di calcolo. A volte qualche giorno, a volte un paio di settimane. Per cui salvo errori, e necessità di riimmettere i dati, i tempi erano quelli. E che, ci fosse stato comunque qualche problema (qualche documento scopertosi mancante), li avrei contattati, ma che mi sembrava ci fosse tutto e fosse tutto in ordine. Mai essere troppo sicuri (intoppi od errori erano sempre possibili), ma neppure lasciare troppo sul vago. Tra l’altro erano spesso mandati dai loro uffici del personale che sapevano il fatto loro e dunque con tutto il necessario per avere presto, sempre che lì avessimo fatto il dovuto, la loro pensione. Mi guardavano allibiti. Confermavo che per quel che dipendeva da me, avrei fatto tutto subito. Ed era vero. Sebbene fossero in due, e poi in tre con me, e le due avessero creato, come da prassi negli uffici pubblici, l’arretrato d’obbligo per lavorare “felici”, avere straordinari ed eventualmente creare forme di dipendenza ed altro con gli utenti, lì c’era giusto lavoro per una persona e neppure abbastanza. Non c’era motivo non facessi tutto subito, quando possibile.

Qualche raro caso di pensioni non si potevano fare lì, dissi chiaro agli utenti, che lì non c’era nessuno potesse farle, che non c’erano i programmi, e che bisognava rompessero le scatole al direttore ed ai direttori più in alto, perché sennò i capiufficio promettevano e promettevano ma poi continuavano a non fare e non dare quanto a loro utenti era dovuto. Alias, li prendevano in giro. In effetti, c’erano taluni aspettavano la pensione da anni, solo perché nessuno s’attivava per mandarla in una sede dove potesse essere fatta oppure per far venire lì qualcuno sapesse qualche trucco su come farla. Erano pensioni non potevano esser fatte coi programmi disponibili o c’erano altre particolarità lì nessuno padroneggiava. Impiegati e capufficio prendevano solo in giro l’utente. “Vedremo... Sentiremo... Ritorni...” Erano tutte balle. Erano cose lì non potevano essere fatte. Per cui si dovevano seguire altre vie. Era nel loro stile di impiegatucoli tira-a-campà che li induceva a ingannare l’utente. Quando poi le cose uscirono sui giornali (credo qualcuno, o qualche familiare o conoscente, sollevò la cosa su qualche giornalone), le cose, anche lì con dilazioni incredibili, visto il menefreghismo di tutti, soprattutto di chi poteva e doveva, furono fatte, o almeno sostanzioni anticipi furono dati ad utenti era anni aspettavano fior di quattrini loro dovuti.

Man mano che, piuttosto rapidamente, misi tutto in ordine e liquidai [feci e misi in liquidazione le pensioni] pressoché tutto il liquidabile, riducedomi poi a lavorare soprattutto sul giorno per giorno, le due, Rosaria e Maria divenivano sempre più nervose. Si lamentarono con la capufficio e col direttore che facevo tutto subito. Arrivò un’ispezione regionale. Nulla di irregolare. Fu mandata un’esperta dalla sede di Tauronia centro. Le avevano detto che ero uno che sabotava il lavoro e che non la sarei stata neppure a sentire. Forse, se ben ricordo, le dissi che non avevo fatto alcun corso, che sapevo quel che mi avevano detto le due erano lì e quel che avevo visto dalle circolari e leggi avevo consultato. Intanto, presi appunti sui suoi rilievi su come far meglio il lavoro. Non trovò comunque nulla di abusivo né di irregolare. Normali errori da inesperienza. Ma nessuna irregolarità permettesse di fare alcunché contro di me. Anzi, disse poi piccata a qualcuno le aveva chiesto, che era restata stupita dal mio atteggiamento: la stavo a sentire e prendevo appunti, mentre le avevano detto che non l’avrei neppure ascoltata e magari l’avrei pestata. Era pure stupita da alcune innovazioni tecniche m’ero inventato di mio. Invece che firmare il modulo di quello che avevo immesso, avevo trovato il modo di stampare la schermata di quanto avevo immesso: così quello che firmavo era quello che effettivamente avevo immesso nel computer non quello che avrei dovuto immettere; un vantaggio di trasparenza ed affidabilità. Pure su quello la direzione avrebbe voluto montare qualche bicicletta...

L’esperta dalla sede di Tauronia centro, la sede provinciale, era stata prevenuta dal circuito di sindacaliste corrotte ed incarognite della ex-moglie e complici che mi avevano così caldamente “raccomandato” con tutti e che mi seguivano costantemente “raccomandandomi” con tutti coloro venissero in contatto con me. Era facile, almeno dove e quando trovavano complici. Lì a Miraflores, per esempio, agivano in accordo col direttore per vedere di trovare il modo di rovinarmi. Il direttore creava le situazioni e le comunicava alla sindacalista sinistra assegnata come funzionaria al centro formazione regionale (un posto in cui non faceva nulla, chiacchiere e servizi infamo-polizieschi a parte) che s’occupava di contattare l’uno o l’altro, l’una o l’altra. C’era chi era onesto e chi non lo era ed era pure scemo. Me lo disse lei stessa, l’esperta mandata dalla sede provinciale, in quell’occasione. Così come già altri prima e dopo mi avevano confermato la cosa. C’era ora la sindacalista di sinistra che faceva la boss mafiosa presso il centro formazione regionale, ora altri del giro, che li contattavano per infamità varie dirette contro di me. Al direttore di Miraflores non interessava il lavoro fosse fatto, tanto le statistiche per incentivi e premi vari sono regolarmente truccate in quegli ambienti lì. Gli interessava farmi fuori, visti i conflitti precedenti in cui avevo semplicemente chiesto un lavoro per la mia qualifica e viste le pressioni aveva ricevuto dalla rete attivata da ex-moglie e sindacalista sinistra mafiosa. Del resto lui era divenuto dirigente, da impiegato, proprio grazie a quel sindacato sinistro, anche lì in Tauronia... ...le mafie pretendono sempre il pagamento dei debiti. Inoltre, la capufficio Isa, da cui dipendevano le pensioni speciali, era quella che era.

Andiamo con ordine.

Rasalia, la meno giovane delle due impiegate delle pensioni speciali, era una giovane sikelica invidiosa. Che fosse invidiosa lo si capiva su commenti faceva sugli altri, soprattutto sulle altre. Era incarognita col marito perché scopava con le colleghe, di non so quale ufficio di quale impresa privata o pubblica. Cosa che faceva pure lei perché scopava, suppongo, con uno di lì le ronzava sempre attorno. Un ragazzotto simpatico. Forse sikelico pure lui, ma in verità non ricordo bene. Certo era suddico. Tra l’altro, Rosaria, doveva avere somatizzato suoi problemi psicologici ed esistenziali, perché le era venuto un qualche tumore al seno. Visto il tipo, doveva essere legato a qualche problema d’invidia nella sfera sessuale. Non è comunque importante. Ci s’ammala anche per caso talvolta, forse. Dunque, se la faceva, almeno a livello di colazioni e di passeggiate assieme, con un giovanotto anche lui sposato che le ronzava sempre attorno con aria affabile ed intima, intimissima. Un giorno il suo amico non venne. Poi la riaccompagnò ma non entrò nella stanza, e neppure nell’ufficio. Dall’entrata dell’ufficio guardò verso di me con aria sorridente, ma strana. Poi, lei, Rosaria, in mia presenza e diretta a me, cominciò a ripetere ossessiva che lei aveva famiglia, marita e figlia, che voleva bene a loro... Io risposi che non me ne fregava nulla e che non mi impiccio dei fatti altrui. Era vero. Soprattutto lì dove non parlavo, se non per finta, con nessuno.

Mi fu comunque subito chiaro che cosa era successo. Il direttore, o qualcuno per conto suo, doveva avere detto ai due che io dovevo avere criticato la loro “amicizia”, insomma il fatto fosseso amanti (se lo erano). Semplicemente, non avevo mai parlato di lei né dell’altra con nessuno. Per cui il direttore, o chi per lui, s’era inventato tutto. S’era inventato tutti per i suoi fini di fottermi. Aveva trovato, lì, le sceme giuste. In genere il tipo morboso, ti fa domande, allusioni sorrisetti. Oppure quello maniacal-moralista ti guarda con disprezzo. Nulla di tutto ciò. Non facevo nulla di tutto ciò. E neppure avevo mai parlato di loro con nessuno. Crimine più grave, facevo il lavoro che loro, che lo sapevano fare da prima arrivassi io lì e magari meglio di me, non facevano. Ma a loro, non interessava fare il lavoro. Interessava coltivarsi il loro centro di potere. Comico un giorno che arrivò una, non mi ricordo se del luogo e del sud, che sembrava già essere stata in contatto con loro e doveva averle supplicate di farle avere la pensione. Loro avevano detto di sì, in particolare Rosaria. Arrivata la pratica a me, visto che poi il lavoro lo facevo io, mentre loro cazzeggiavano in giro non so bene facendo cosa, dissi loro che non era fattibile perché non sussustevano i requisiti. Era vero. Passarono giorni e giorni, soprattutto Rosaria, a frugare tra circolari e leggi per trovare qualche appiglio, per farla lo stesso. Non era fattibile. Credo che non avesse l’età, o la quantità sufficiente di contributi. Non sono cose si possano inventa re, né su cui si possano trovare appigli. Confabularono pure con la capufficio. Avevano promesso alla loro cliente. L’avevano rassicurata. S’erano sbagliate. Non sapevano come dirglielo o non potevano dirglielo. A me sarebbe stato semplice dire ad un utente che m’ero sbagliato. Quando crei un legame di clientela, o chissà di cos’altro, è chiaro che una, invece, non sappia come dirglielo.

Maria, l’altra impiegata delle pensioni speciali, era una ragazzotta calabrica sposata da poco. Un giorno mi fece un discorso strano il sui senso poteva essere che me l’avrebbe data. La guardai gelido. Anche lei giovane, più giovane dell’altra, ma ben pomposa e matronesca quando si faceva accomodare qualche cliente di fronte alla scrivania e ponteggiava prosopopeica non so ben su cosa. Una sul pazzo ordinario. Di quelle che d’estate tirano giù tutte le saracinesche e poi accendono la luce al neon perché c’è buio. Un giorno disattivai il neon. Quando venne l’elettricista, mi fece pena. Glielo dissi all’elettricista che era solo svitato. Al che, lei, appena lo seppe, ebbe una crisi isterica. Disse che era stata obbligata a rovinarsi gli occhi lavorando, ah già perché oltre a non far nulla faceva pure dello straordinario!, al buio ...se tirava giù le persiane... Poco dopo, o il giorno dopo, la capufficio venne con aria piccata e materna a chiedermi: “Ma cosa t’abbiamo fatto?!” Le risposi calmo e quieto che non sapevo bene di cosa stesse parlando. Scappò con la voce rotta dal pianto.

Ecco Isa, la sikelica capufficio. Una democristiana matronesca, che faceva le pensioni da sempre, e che, alla fine, matrona delle matrone, sempre incerta se andare in pensione oppure continuare, era divenuta capetta. Una che non s’affannava. Per lei, la forma era tutto. Sposata ad un funzionario di polizia, costui un bel giorno, gira oggi, gira domani, s’era innamorato d’una ragazzetta e pure lei doveva essersi innamorata di lui, se erano divenuti amanti. Pure lei, la moglie, e dunque tutti, doveva esserlo venuto alla fine a sapere. Democristiana e cattolica di ferro, non doveva essere stata capace di scopare anche lei in giro se le piaceva, oppure di disfarsi del marito se lui non la scopava più oppure se a lei non piaceva scopare. Troppo semplice. Doveva avere affrontato lunghe discussioni con lui ed alla fine trovato un compromesso: che lui pranzasse (lo spuntino della pausa pranzo negli uffici, in pratica) con lei tutti i giorni sì che tutti i colleghi e colleghe dell’ufficio potessero ben vederla col marito; ah, avrà anche preteso che lui rinunciasse alla ragazzetta ed a trovarne altre: non ho idea dei dettagli e sviluppi della cosa; neppure so quando si fosse verificata; so solo che in effetti la vedevo talvolta a pranzo col marito in uno dei bar sotto l’ufficio con lei tutta rigida per quel marito prodigo ritrovato (o così dava ad intendere) dopo che lui s’era invaghito d’una ragazzetta.

Isa, questa matrona pretenziosa, era di quelle “aristocratiche” (o solo montate) e buone per autodefinizione. Ma come lavoro... Sta di fatto che non mi firmava le pratiche che io facevo rendendo dunque impossibile, a seguire le regole, mandare poi i libretti di pensione e gli arretrati agli utenti. Non ci pensai due volte. Facevo tutto senza la sua firma. Prima gli utenti avevano soldi, poi che lei se la prendesse comoda. Ma lei s’ammucchiava tutto nel suo ufficio. Era un’altra che amava le processioni di utenti cui contargliela matronesca di “vedremo, faremo, valuteremo”. Forse le pratiche le archiviai perfino senza che lei le firmasse. Anche perché poi, se occorreva, andarle a cercare tra le tonnellate di pratiche accumulate nel suo ufficio... Nessuno m’ha mai detto nulla. Nessuno mai mai arrestato né chiesto soldi per pensioni indebitamente erogate. Neppure sollevato l’irregolarità formale che le mettevo in pagamento senza che lei le avesse firmate. Ero coperto da quella lettera d’obbligo che essendo liquidazioni provvisiorie, sarebbero stati poi recuperati eventuali indebiti. Ma ero ancor più coperto dalla logica del fare. Qualcuno avesse mai obiettato qualcosa, avrei detto la verità: l’utente ha diritto al dovuto; se una si tiene le pratiche per settimane e mesi senza firmarle sono problemi suoi, non una ragione per non erogarle tanto più che si era coperti da quella lettera connessa al fatto che le pensioni erano provvisorie. Non fu per questo che il direttore avviò la procedura di licenziamento. Semplicemente disse e fece dire e dichiarare che non facevo nulla. Lo vedremo dopo.

Ah, naturalmente, mi ronzava attorno tutta la comunità delle spione. Valeria, di un ufficio in cui era precedentemente stato, era una che veleggiava verso l’anzianotto ma che continuava ad ostentarsi, e che scopava solo con direttori ed uomini d’affari. Il marito, un industriale, era anzianotto, per cui lei, periodicamente, andava in viaggio da sola, crocere soprattutto, alla ricerca di uomini soli da cui farsi trombare. E poi s’attaccava a tutti i diririgenti le passavano sotto il naso per divenirne informatrice e vedere se la chiavavano. S’era fatta montare una volta pure dal direttore campanico appena arrivato. Lui poi l’aveva raccontato in riunione sindacale al soviet dei sindacalisti, giustificandosi: “...ha il marito anziano...” Lei avrebbe voluto continuare. Era lui che non voleva. A lui bastava la sottomissione d’una volta e che lei fosse informatrice e provocatrice sua. Allora, lei, predisposta all’infamia, mi ronzava attorno, sia perché avrebbe voluto farsi montare pure da me (le avevano detto che ero un gran delinquente ed un gran terrorista, cosa che poteva supplire, ai suoi occhi, al fatto non fossi né direttore né industrialotto) ma ancor più per vedere di estorcermi chissà quale segreto da riferire al direttore e cercare così di rientrare nelle sue grazie di letto. Ti fai montare da uno per godere a farti dare informazioni che poi dai all’altro sia per compiacere la tua predisposizione all’infamia che nella speranza ritorni a montarti: logica ineccepibile. Era di famiglia. Già la madre, erano dei confini orientali, durante la guerra la dava ai soldati d’occupazione krukki, che s’invitava a casa, per consolarsi del marito che era in guerra a sua volta. Mi s’agganciava quando andavo a mangiare. Se riuscivo ad inventarmi qualche balla che lei potesse riferire, bene. Se invece, preferivo parlare di nulla, lei riferiva le cose più stravaganti. Diceva, per esempio, ascoltai alcune sue allarmate telefonate quando era più in calore ed agognava una monta dal direttore, che doveva parlargli urgentemente. Poi, gli si avvicinava per farle sentire il contatto del suo corpo e tutta vampata di finta preoccupazione gli diceva che avevo detto che lo avrei infilzato di coltello e squarciato dalla pancia alla gola o viceversa. Per rendere più realistico il suo racconto le allungava la mano verso il basso ventre, nell’area dell’uccello. E così via, con varie variazioni sul tema. Il direttore riferiva poi queste cose alla direzione regionale (non che Valeria gli toccava l’uccello nella speranza lui la montasse, ma le balle lei riferiva su ciò che non avevo detto) dicendo che gliele avevo dette io a lui in ascensore. ...Così va il mondo...

Sempre il direttore, mi mandò qualche d’un’altra strombazzata da tutti o che si trombazzava tutti che mi si fece sotto in base alla solita logica: “Te lo porti a letto. Lui si lascia andare. Tu mi riferisci.” Cercarono d’agganciarmi con discorsi “irresistibili”. Me ne viene in mente una, un po’ tardona per i miei gusti, che mi venne sotto con grande “maestria”. Cominciò col dirmi che il direttore s’era vantato con loro che, appena arrivava in una sede, tutte le troiazze del luogo andavano a mettersi a sua disposizione per ogni bisogna. Io la guardavo. Continuò che secondo lei il direttore era uno che in realtà diceva, diceva, ma poi si tirava indietro. Si aspettava che assentissi a tale melevolo commento. Al che mi avrebbe detto: “E, tu?!” A quel punto avrei dovuto invitarla a casa e scoparla. Invece, continuai a guardarla gelido senza alcun commento e con aria da dire: “Saranno ben fatti suoi...” Infatti, non avendo ricevuto la risposta si aspettava, lei arrossi. Ed io me ne andai. Ah, poi c’era pure la cugina della capufficio, un’altra sikelica che era, guarda caso, nello stesso ufficio della cugina capetta e sempre ansiosa si aderire a tutte le richieste ed offerte della direzione. Cercavano una volontaria per qualche lavoro, ecco che lei si faceva avanti, anche se poi magari la criticavano perché non rendeva abbastanza, oppure doveva sempra chiedere all’uno od all’altro come fare le pratiche. Nel rapporto con la cugina capa, lei era la troia della famiglia. Isa, la santa. Lei, la troia. Restata incinta alla quinta superiore, s’era sposata nel periodo degli esami di maturità. Poi il marito l’aveva lasciata, preferendo scopare in giro anziché con la novella moglie. Ansiosa col figlio, ormai un ragazzo grandino quando io ero capitato lì, s’era dunque da tempo sistemata nello stesso istituto pubblico della cugina e, la sera, andava in giro con qualche amica del tipo suo a rimorchiare cazzo, ostentando tettone e culone. Mi ronzava attorno... ...mi disse che avrebbe voluto divenissimo intimi. Un giorno glielo dissi che non sarebbe successo mai. Tra l’altro oscillava sempre tra l’amichevole e l’isterico. Chessò, urlava di spavento e poi mi chiamava perché aveva visto una cosa strana sul davanzale. Quando io vedevo che cosa fosse, un topo morto, e lo spingevo col piede perché potesse vederlo anche lei se credeva, lei se ne sbottava isterica che io ero uno faceva sempre i dispetti. Cose senza senso, se ci si limitava all’espetto logico dei eventi e di ciò che lei diceva. Appunto leccava, e magari si faceva occasionalmente montare dal direttore che era piuttosto indispettito con me, per cui doveva dire, in modo che tutti la sentissero, che io sarei stato uno “che faceva i dispetti”. E così via.

Dunque, Rosaria e Maria all’isteria perché, avendo io eliminato ogni arretrato delle succulente pensioni speciali, non potevano più fare i loro traffici con utenti ed altri. Il direttore cercava di creare tragedie con le due e con tutti. E si sa quanto pidocchi e pidocchie siano sensibili a qualunque discorso fatto da chi abbia una qualunque autorità formale. La capufficio, che non firmava le pratiche sperando di bloccarmi il lavoro, e per avere poi lei, nel suo ufficio, la processione degli utenti che s’andavano a lamentare ed a raccomandare per avere il dovuto, cosa che io avevo comunque rimosso mettendo tutto in pagamento senza la firma della capufficio. Infatti, ora che ben ricordo, Isa non venne mai da me a sollecitare per chiccessia. Facevo tutto subito. Semmai io accompagnavo qualche utente da lei [era la stanza attaccata alla “mia”], ben prevenendoli (dicendo il vero, non prevenzioni pretestuose), quando erano cose non dipendevano da me e nessun avrebbe mai risolto si fossero limitati ad aspettare fiduciosi.

Tra l’altro, sia il direttore che la capufficio avevano fatto controllare da Rosaria e Maria le pensioni che avevo fatto, cosa che loro fecero vistosamene senza che io facessi alcun commento. Ma non avevano proprio trovato nulla su cui attaccarsi. Di tanto in tanto, chiedevano “spiegazioni” a me sull’una o l’altra cosa, con voce alterata. Avevo poi sempre ragione io. Tra l’altro, da buone fannullone occupatissime coi fatti loro, se le dimenticavano dappertutto. Di qualcuna persero dei pezzi. Poi si provarono a menarla a me... Ma andò loro male. Si ridussero a convocare gli utenti e farsi riportare da essi la documentazione loro avevano perso chissà dove. Visto il clima, ad ogni buon conto, lo raccontai a tutti che perdevano la documentazione presentata dagli utenti.

Rosaria e Maria avevano così infine concordato col direttore una lettera in cui annunciavano formalmente a lui che loro rifiutavano la situazione che s’era creata, cioé la mia fattiva presenza lì, e dunque si autosospendevano dal lavoro delle pensioni speciali. Il direttore le mise a fare altro, o forse nulla. Poi scrisse a Roma che io non facevo nulla e fece avviare la procedura di licenziamento. Intanto, nelle riunioni dei sindacalisti, diceva, di tanto in tanto, senza che c’entrasse nulla, che io non facevo nulla. Solo qualche raro sindacalista saltava su chiedendogli di che mai delirasse. A nessun altro ne fregava nulla. Un po’ tutti pensavano alla loro coska e solo alla loro coska.

Non che la procedura di licenziamento sia così semplice. In genere, se riescono, prima creano un precedente con una lunga sospensione senza stipendio. Quando uno rientra, se non è del tutto annientato, e se trova lo stesso od altro direttore maldisposto, e se non si mette sotto la protezione di qualche mafia, ecco che hanno creato le condizioni per un licenziamento con infamia.

Nell’ufficio di cui Isa era capufficio, c’era una sindacalista, la sindacalista democristiana del luogo. Era separata dal marito. S’era fatta montare da un ex-usciere anzianotto che era il segretario del sindacato democristiano del luogo. Quando costui era andato in pensione, la segretaria sindacale era divenuta lei. Aveva un lavoro, li alle pensioni, di tutto riposo. Usava tutti i permessi sindacali, che altrimenti non avrebbe saputo come usare, per andare al mercato a far la spesa ed altro. Infatti, prima d’andarvi faceva il giro dell’ufficio per chiede alle altre femmine se avessero bisogno di qualcosa. Insomma, era ben inserita nell’ambiente dell’ufficio pensioni. Non mi chiese mai nulla. Mai intervenne in mio favore e contro la mafia del luogo. Come avrebbe potuto?! Lei ne era del tutto organica e ne era uno dei bracci sindacali.

Avviata la procedure di punizione-licenziamento, perché “non lavoravo”, mentre in realtà avevo aggiornato tutto il lavoro e reso inutili le due corrotte che erano così restate senza l’oggetto della loro corruzione, arrivò un ispettore dalla capitale. Un essere grasso e disgustoso che mi chiamò tanto per vedere che faccia avessi e che mi disse che alla fine della sua investigazione mi avrebbe chiamato per chiedermi una dichiarazione. Probabilmente m’avrebbe detto le accuse e m’avrebbe chiesto ch’avessi da dire.

L’inchiesta che fece fu piuttosto strana. In condizioni normali, in quegli ambienti, interrogano un po’ tutti, a cominciare dai sindacalisti. Ma lì il direttore aveva paura che, se avesse interrogato i sindacalisti, qualcuno, e poi magari tutti, lo avrebbero detto che non era vero non lavorassi. Semmai era successo il contrario visto che, lì alle pensioni speciali, avevo aggiornato tutto. Di certo interrogò il capo reparto, un omone intelligente e viscido. Cianko, d’origini sikeliche, d’area sindacal-sinistra. Costui era alla vigilia di un concorso per divenire dirigente. Il direttore ed il suo network mafioso-sindacal-sinistro gli dissero chiaramente che o lui dichiarava per iscritto per io non facevo nulla oppure lui non avrebbe passato il concorso, che come tutti i concorsi di quegli ambienti dipendeva da mafie sindacali e para-sindacali. Lui dichiarò il falso su di me, con dichiarazione scrisse e sottoscrisse, e passò il concorso come previsto divenendo così dirigente. Lo stesso ispettore dalla capitale se n’andò via come un ladro. Aveva detto che m’avrebbe chiamato a fine ispezione. Non mi chiamò. Gli fu detto che doveva essere un’ispezione per liquidarmi. La fece come gli era stato ordinato dal network mafioso-sindacal-sinistro lì a Tauronia e nella capitale. E nella capitale fu avviata la procedura per un provvedimento punitivo, una lunga sospesione.

Tramite una sindacalista onesta del luogo, un ragazza sikelica, che, il giorno della seduta-processo, volò nella capitale e andò alla seduta-processo col suo capo sindacale, un liberale che risiedeva nella capitale e che era negli organi d’amministrazione di quell’istituto, la procedura fu bloccata.

Meglio comunque chiedere l’elemosina nelle stazioni che lavorare con tale feccia ed in tali condizioni. Mi dimisi io.

Le due si ripresero il “loro” ufficio. Si ricrearono il loro arretrato. E con la piena soddisfazione e cooperazione della capufficio e della direzione, si ricrearono la loro rete di clienti che devono andare da loro a supplicare il dovuto ...quando lor “signorie” ritengono di lavorare.

In Mediterranea funziona tutto così. Non a caso, sprofonda ogni giorno di più.