mercoledì 1 novembre 2006

Madri di merda 2. Franca

Madri di merda 2. Franca
by Georg Rukacs

Una di quelle famiglie calabresi, della campagna calabrese, degli anni ’10, ’20, ’30, con una dozzina di figli e figlie. Sopratutto figlie. Contadini poveri, cioé senza terra e senza lavoro. Il padre era andato in Brasile a cercar fortuna, ma non l’aveva trovata. Forse sono quelle cose che si devono fare con tutta la famiglia, ma non è che il viaggio per una dozzina di persone dovesse essere di poco costo. Figli nati a scadenze di 3 anni l’uno dall’altro. Altri del ramo largo della famiglia i soldi li avevano. Ma non loro. La madre, una faccia da alienata. Di quelle che si fanno trombare con disgusto e mettono al mondo poi con ancor più disgusto questi figli a scadenza regolare. Infatti, tra le figlie dominavano sessuofobia e frigidità. Poi un figlio, o il maggiore, o forse il secondo, era andato volontario in Spagna. Tornato, o forse già prima, doveva aver fatto il poliziotto, il questurino si diceva allora, in una città marittima del nord. Ma non doveva essergli piaciuto troppo, oppure gli era piaciuto di più altro, perché, pur restando statale, in guerra lo si ritrova bersagliere in Africa. Credo come militare di carriera. Prigioniero francese, a seguito della battaglia di Tobruk, poi dopo la guerra, dopo le prime incertezze se l’Italia avrebbe riavuto delle FFAA, continua a fare il sottufficiale dei bersaglieri in Friuli.

È quando è poliziotto in una città marittima del Nord, che tutta la famiglia lo segue, come spesso succede, o succedeva, con famiglie calabresi. Lui spendeva tutto lo stipendio in motociclette e macchine fotografiche. Quando a scopare, credo che la posizione di poliziotto gli permettesse di scopare in giro senza spendere soldi nei bordelli. Infatti, si vantava di conoscere tutti gli anfratti delle dismesse mure di cinta della cittadina. Comunque, anche se lui non contribuiva gran che al benessere della famiglia (del resto uno stipendio per una dozzina, alla fin fine era più saggio che se lo tenesse tutto, o quasi), la famiglia resterà poi nella cittadina, salvo qualcuna o qualcuno, o per matrimonio o per lavoro, finita o finito altrove.

A parte una, che era divenuta maestra, gli altri e le altre non superavano la terza avviamento, quando andava bene. Esser maestra, come essere avvocato, era uno dei miti di molte zone calabresi, mito che solo per taluni si traduceva in realtà. In questo senso, la maestra, Angela, era il mito della famiglia. Un po’ come una seconda capo famiglia. A primo s’atteggiava il militare, il sottufficiale dei bersaglieri.

Franca era più o meno nel mezzo di quella scala di nascite a ritmo triennale. Non era delle più vecchie, non era delle più giovani. Era del 1927. I capi della famiglia erano di fatto il fratello sottufficiale dei bersaglieri e la maestra, Nicola e Angela. Costei era o la maggiore o la seconda delle sorelle. Del resto anche il fratello poi bersagliere doveva essere il secondo. Credo che prima ve ne fosse un altro che non partecipava mai ad eventi di famiglia, chessò a sposalizi o comunioni. Non ho mai capito se fosse perché la moglie battesse o se vi fosse qualche altra ragione. Singolarmente, alcuni dei fratelli e delle sorelle ogni tanto gli facevano visita, ma, appunto, quando c’era qualche occasione di riunione comune non c’era mai. Può darsi fosse successo qualcosa col secondo, il bersagliere.

Franca s’era ritrovata in questa cittadina del nord con famiglia già poverissima, e che continuava ad esserlo, ed avendo finito solo le elementari. La maestra, invece, era già maestra. Angela. Era la più ruffiana delle sorelle. Di quelle con quel sorrisetto da tizie che la sanno sempre lunga e che fottono tutti. Contrariamente alle altre, tutte vittime della morale ristrettissima della famiglia, o semplicemente delle paranoie e fobie della madre e dei tempi, era pure più disinibita. Titillando uccelli e dando il culo ai cuginetti del ramo ricco della famiglia aveva trovato pure il modo di ingraziarsi zie ricche e di farsi da loro pagare il collegio per divenire maestra. L’unica della famiglia poverissima con l’allora ambìto diploma. Era un po’ ignorantella a dire il vero. Ma era comunque maestra e con tutti i titoli formali per insegnare nelle scuole elementari, cosa che farà. Forse era anche dal suo stipendio che, non so da quando, usciva qualche soldo per la famiglia al nord, famiglia con cui pure lei s’era trasferita prima di, dopo la guerra, sia per lavoro che per matrimonio, andare a vivere nella bassa padana.

Nella cittadina del nord, Franca, pressoché ancora adolescente, era stata mandata a servizio da due sorelle, una signorina, cioé zitella, ed una vedova di un musicista vaticano. Se ne vergognò sempre, anche se non mi sembra ci sia nulla di disdicevole. Meglio a servizio che in fabbrica, sopratutto se giovanissime. Probabilmente, le due glielo facevano pesare, che le davano da mangiare in cambio dei lavori di casa. E sopratutto era lei stessa e farselo pesare. Poi, con la guerra, s’era sistemata alla Sepral, l’ente di razionamento di guerra. Ne approfitterà, soprattutto dopo la guerra per fare o finire da privatista l’avviamento commerciale e poi per cercare di divenire maestra. Il primo ostacolo era l’esame di licenza media. Ma il matrimonio, ed ancor più le sue paranoie, le impediranno sempre di raggiungere tale suo sogno. Si fermerà alla terza, la fine, dell’avviamento commerciale.

Il matrimonio era stato uno di quelle cose che aveva voluto per sentisi come tutte e tutti. Una di quelle cose che si devono fare. Non le interessavano gli uomini. Non le interessava il cazzo. S’era sposata perché tutti si sposano. Quelle cose che si devono fare. Una di quelle cose che si fanno per dire agli altri, a cominciare dai familiari, che anche lei è come tutti e tutte.

Lui era una tutto casino e bar. Lavorava, come fattorino o lavoro simile in un cantiere navale. Uscito dal lavoro, motocicletta, bar e casino quando ce l’aveva duro. Tale era la sua vita. Aveva grandi aspirazioni, ma la sua vita era tutta lì.

Era dopo la guerra. Lui l’aveva vista a qualche fermata del tram, lei con le sua amiche o colleghe o conoscenti. Le era piaciuta. S’era fatto sotto. E siccome era “seria”, cioè vergine, gli aveva chiesto di sposarla. Lei, predestinata a fare la vittima, aveva detto di sì al matrimonio con uno che era all’opposto di ogni suo desiderio, semmai aveva desideri, e che l’avrebbe messa sotto irrimediabilmente. Il solo desiderio di lei era la normalità, sebbene lei stessa non sapeva che significasse. Un’aspirazione ad una normalità borghese, che lei chiamava tranquillità.

Al matrimonio lui non aveva una lira. Spendeva tutto al bar ed al casino! D’altro canto, sebbene fosse solo fattorino, pur con l’idea fissa di mettersi in proprio, cosa che poi farà sebbene non avesse specifiche competenze professionali in nulla (non era mai stato davvero operaio e tanto meno operaio con una specializzazione), non voleva lei lavorasse. Voleva la classica moglie che sta in casa e null’altro. Lui avrebbe continuato ad andare al bar. Lei serviva solo quando ce l’avesse avuto duro e per cucinare, lavare, pulire.

Siccome, nel classico sistema italiotico, già allora solidamente fondato, si “creavano” posti di lavoro, facendo licenziare chi già l’aveva, soprattutto le donne, lei, licenziandosi, poteva usufruire d’una rilevante buonuscita. Poteva essere la fine del 1949. Lui senza soldi. Lei con una lauta somma di liquidazione e buonuscita. Avrebbero potuto sposarsi senza fasti, e lei continuare a lavorare. Ma lui voleva la moglie donna di casa e lei, seppur avrebbe volentieri continuato a lavorare, voleva solo la normalità d’un matrimonio per andarsene da quella famigliona calabrese in cui nessuno era mai veramente stato a suo agio.

Così s’erano sposati con un matrimono fastoso ed erano andati in viaggio di nozze, il tutto coi soldi di lei, della sua liquidazione e buonuscita dalla Sepral. Sue amiche più smaliziate le dicevano, “uh, vedrai...” faccendole intravvedere le delizie del sesso. Ma lei se ne restava tutta vergognosa, arrossiva e davvero non gliene fregava nulla. Non era neppure di quelle si toccassero e poi, toccandosi, sognassero cazzi le penetrassero e le facessero sussultare di godimento.

La prima notte di matrimonio, come poi tutte le altre, era stata non solo un vero disastro ma una vera tragedia per lei. S’era sentita come violentata. Non solo non le era piaciuto. Le aveva fatto male e schifo, lui che la trombava. Certo, colpa anche sua, di lui. Ma erano predestinati così. Una la devi eccitare, perché ne abbia desiderio. Ed anche lei non volesse farsi delle sane trombate prima del matrimonio, meglio farla impazzire di desiderio, sì che poi lo cucchi con calore. Od almeno, farle venire voglia la prima volta che ci si trova in un letto faccia a faccia. Se poi, per lei, ci s’accorge che iniziare a trombare proprio quel giorno può essere una tragegia, nulla vieta d’aspettare, sempre che si sappia o s’intuisca come venire a capo nel problema. Se ti trovi un pezzo di legno, meglio farlo diventare, anche con un po’ di tempo, se ci vuol tempo, un bel corpo caldo che prenderlo subito e poi tenersi tutta la vita, nel letto e fuori, un pezzo di legno col buco. Ma lui voleva solo trombare e subito. Lui che voleva solo trombare. Lei che voleva solo un marito ma non aveva desideri, o se li aveva erano ancora troppo nel profondo dell’anima. Lui aveva trombato. Ma per lei era stata solo una sofferenza ed uno schifo. Cosa che le resterà sempre. E s’aggiungerà alla rabbia da rivalsa che già si portava dentro da sempre e che col matrimonio s’accentuerà.

Infatti, il primo figlio tardava ad arrivare. Lei rifiutava il sesso. Lo rifiutava psicologicamente anche se lui la trombava lo stesso ed a lei era stato detto che è dovere d’una moglie farsi trombare. Lei rifiutava suo marito. Quel seme che lui le schizzava dentro non la fecondava. Lei restava chiusa. Lui aveva ripreso con la sua vita tutta lavoro al caniere navale, bar, visite alla madre che abitava poco lontano da dove i due sposi novelli avevano trovato casa. Prima di restare incinta lei c’aveva messo ben un sei mesi. Restata incinta, la felicità di lei era stata di nuovo il sentirsi normale. Non la gioa del sesso, che non provava. Non la gioa d’un figlio. La “gioia” che se ora le chiedevano, soprattutto la sorella maestra, Angela, “Novità?!”, potesse dire che certo anche lei ora era normale ed era restata incinta.

Soprattutto Angela era infatti un po’ sempre stata, ed ora ancora di più diventata, la sua coscienza che la sgridava in continuazione se non era “normale”, se non faceva ciò che Angela non avesse approvato. Ed Angela, dietro i suoi sorrisi viscidi, in realtà non approvava mai nulla, di nessuno. Neppure del marito, che disprezzava e che aveva sposato come simulacro d’una integrazione nordica. Un basso padano che l’aveva chiesta in moglie. Lei subiva il fascino dell’autorità e si faceva inculare appoggiata alla scrivania, o piegata, contro una poltrona, nella direzione, dai direttori della sua scuola che lei, naturalmente, andava a leccare come fedele e collaborativa maestra. Prima, coi cugini calabri in Calabria. Ora, dai direttori della scuola. Sempre e solo per averne dei vantaggi. Io di dò. Tu mi dai. Ma con le sorelle doveva fare la severa, seppur viscidamente sorridente, sorella maggiore cui sotto sotto non andava mai bene nulla perché lei e solo lei era perfetta, cioé più furba, quella che le aveva fottute tutte e tutti divenendo, solo lei nella famiglia, maestra, La Maestra.

Nato il primo figlio, il marito di Franca s’era messo in proprio in società con un’operaio, e con l’appoggio occulto e ben ripagato di un ragioniere o pseudoragionere del cantiere navale ch’evidentemente gli aveva garantito del lavoro, almeno nella fase iniziale. L’operaio, il capo operaio della nuova fonderia, conosceva il lavoro. Lui curava il resto, il lavoro d’ufficio, anzi più che altro l’andare il giro. Poste, banche, clienti. Alla fine, era cozzato contro il socio ed era restato solo lui, padrone unico delle fonderia, che, negli anni ’50, lavorò a ritmi sostenutissimi. Qualche ristrettezza, all’inizio, che Franca aveva vissuto con tragedie a non finire. Ma poi i soldi erano arrivati. Altre tragedie da parte di Franca, la cui missione esistenziale consisteva nel tormentare sé stessa, il marito, i figli. Con la fonderia, avevano cambiato casa, andando ad abitare in un posto più prossimo, seppur non vicinissimo alla fonderia. Lì era arrivato il secondo ed ultimo figlio. Poi, traslocarono di nuovo, vicino, ora, dall’altra parte della strada, alla fonderia, non appena era sorta una delle tante palazzine nuove del periodo, in cui avevano affittato un appartamento.

Poi con gli affari floridi ed i soldi in discreta quantità, seppur per un effimero periodo, i sogni di ingrandimento. La costruzione d’una nuova fonderia fuori città, un appartamento di proprietà, oltre a vari altri acquisti, che tuttavia erano coincisi con una irrimediabile crisi del settore da cui la fonderia, priva di agganci politici, non era più uscita. Ciò che aveva permesso a Franca di dilettarsi in urla, bronci e rimproveri a quel marito “inetto” che s’era ricoperto di debiti, seppur, in realtà, i soldi mai mancheranno alla famiglia, e neppure qualche bene immobile fortunosamente acquisito e salvato.

Invidie rancorose verso tutti, innazitutto verso la propria famiglia ed i proprii figli, e imitazione della sorella maestra, per quel che poteva. Anche Angela, guarda il caso!, aveva due figli. Il maggiore di Angela aveva fatto ragioneria. Ecco che anche il maggiore di Franca, era stato obbligato dalla madre a far ragioneria. L’altro di Angela aveva frequentato il tecnico per geometri. Ecco che anche il secondo di Franca era stato obbligato dalla madre a divenire geometra.

Ma la storia dell’invidia verso i propri figli era continuata. Il più piccolo aveva poi fatto ingegneria. Finita la tesi, s’era scoperto un errore di calcolo che gli avrebbe rovinato il 110 e lode che altrimenti avrebbe avuto. Stava per rimettersi a rifare tutto il progetto dall’inizio, ora coi calcoli giusti, quando la madre, che si vedeva sempre di fronte la sorella Angela che la sgridava, l’ossessionava. “Ma quando finisci?!”, “Ma voi andare mica fuori corso!”, “Oh, ma quant’è che lavori!”, “Ma va, che va bene così!” “Ma allora finisci o non finisci?” e così via, tanto che lui, sottoposto a quelle lunghe e viscide pressioni s’era risolto a lasciar perdere e consegnare il progetto errato rimediando credo un 108 o 109 invece del 110 e lode che altrimenti avrebbe avuto. Finito, pur senza il 110 e lode, il professore della tesi l’aveva voluto come suo collaboratore. L’aveva messo a lavorare con lui e gli voleva intestare, a metà con la moglie del professore stesso, una di quelle ditte che tanti professori s’aprono come copertura d’un’attività parallela a quella ufficiale. In fondo era una prova di fiducia, oltre che di stima, intestargli una ditta. Naturalmente, il figlio minore di Franca aveva detto di sì. Non appena era arrivato a casa l’aveva detto. Ecco che Franca s’era vista di fronte la sorella Angela che la sgridava: “Ma come si può tollerare che uno dei tuoi figli possa avere un qualche successo in qualche campo... ...ma sarà poi successo?! E se ci sono dei problemi?! E se va male?!” In realtà le ditte del settore edile e delle costruzioni, è di quello che si trattava, vanno in genere bene e fanno soldi a palate. Ecco, che allora Franca aveva inziato ad ossessionare il figlio: “Ecco ti metti nei guai!”, “E se fallisce?”, “Sono solo preoccupazioni!” e così via. Tanto che il figlio, alla fine, era andato dal professore suo dicendogli che ne aveva parlato a casa e gli avevano detto di non farlo, per cui si trovava costretto a ritirare quel sì dato in precedenza. Il professore, che cercava evidentemente ingegneri collaboratori non per avere degli impiegati ma per fare soldi assieme, non l’aveva presa bene e, pur senz’alterarsi, gli aveva detto che dunque si vedeva costretto a chiudere lì la loro collaborazione. Ora, quel figlio, potrebbe avere soldi a palate. Invece, si trova a fare il pendolare tra Roma dove fa il capo ingegnere, ma con stipendio da dipendente, pur d’una grande industria del nord, e Genova dove è sia la sede centrale della sua azienda che la sua pseudo famiglia. Lasciatosi alle spalle “le preoccupazioni” ...immaginarie nella mente malata della madre, era finito a fare l’insegnante o il supplente. Disperato per un’attività senza senso, s’era poi rivolto ad un parente che, pur stimandolo, gli aveva trovato solo un lavoro non grandioso come ingegnere a Milano. Stufatosi anche lì per via d’un ambiente gretto ed d’una città fredda, aveva poi trovato un lavoro come ingegnere del comune a Genova. Lì la madre era felice perché, come dipendente comunale, era un “lavoro sicuro”. Soprattutto non essendo lui un corrotto, gli incassi non erano grandiosi. E poi era un lavoro senza prospettive, appunto per uno non corrotto. Un lavoro banale e senza prospettive rendeva euforica Franca, che non sarebbe così stata sgridata dalla sorella maestra, solo commiserata per quel figlio ingegnere e fesso. Alla fine, pur con delusione della madre Franca perché lasciava il posto pubblico dunque “sicuro”, lui è passato ad una grande azienda del luogo che l’ha poi mandato a Roma con un gruppeto d’altri ingeneri. Sempre meglio ch’ingegnere del comune. E fa l’ingegnere vero che fa anche progetti. Sposatosi, lui che avrebbe voluto avere figli, con una moglie che non li voleva e non ne ha avuti, fa ora il pendolare settimanale tra Roma e Genova, con la moglie impiegata, che fa la troiazza con tutti i colleghi ed altri gli raccontino con trasporto dell’ultimo libro o dell’ultimo disco o che, più banalmente, glielo facciano sentire duro. Franca è felicissima di questo figlio con “la testa sulle spalle”, che appena la madre ha una paranoia infettiva devastante la compiace e collabora, che appena il padre ha un raffreddore corre dai medici e chiedere quanti giorni abbia ancora di vita e s’offre di chiamare suoi amici per ricoveri speciali in grandi ospedali, e così via.

Il più grande ha invece fatto il “disgraziato”. Anche se non troppo in realtà. Non beve. Non si droga, né s’è mai drogato. Neppure ha mai fumato una sigaretta di tabacco. Non ha l’Aids né la sifilide. Non ha la Tbc. Non è gay. [Non che ci sia nulla di male se uno lo è...] Non ha particolari manie sessuali. E neppure frequenta siti internet porno.

Appena finita la scuola voleva andare all’università, sebbene la scuola non l’abbia mai troppo appassionato: è di quelli che s’appassionano al sapere ma non a quello codificate dagli altri. Era, tra l’altro, l’anno che davano la borsa di studio a tutti, il 1969/70. Doveva andare a Trento. Era bastata una telefonata di Angela a Franca: “Ma non lavora, ora che ha finito la scuola...? Certo che stare in giro, senza un lavoro...” che Franca cominciasse ad insultare il figlio, lo obbligasse a trovarsi un lavoro estivo, il fattorino di medicine dal grossista alle farmacie, e poi a fare tutte le domande possibili ed immaginabili in posti pubblici, “il posto sicuro”. Prima fece il trimestrale alle poste, su raccomandazione d’un parente repubblicano. Poi, ancora trimestrale alle poste, aveva vinto un concorso per due posti in un’ufficio pubblico ed assunto lì interrompendo quel lavoro da trimestrale alle poste. Doveva aver preso servizio agli inizi del 1970. Naturalmente, tutto lo stipendio lo dava alla madre che lo metteva in banca, perché, seppur in quel periodo la famiglia non fosse in condizioni floridissime, non aveva comunque bisogno del suo stipendio. E si passava le giornate, dalla mattina alla 7:45 alla sera 20:00 in ufficio, finché si fece furbo e cominciò a non fare più gli straordinari e a ridedicarsi a riseguire interessi suoi. Lavorava solo perche la sorella Angela aveva montato la testa di quella scema di Franca. Poi s’era sposato. E s’era trasferito in una metrolopi del nord con moglie e figlia. Era allora facile, per chi lavorasse in quell’ufficio pubblico avere trasferimenti verso il nord, infatti volevano tutti andare verso sud. Sfrutterà l’opportunità di essere in una città universitaria per fare, poi, più tardi, l’università.

La madre, un giorno, cominciò a fissarsi che il figlio maggiore dovesse essere un grande capo rivoluzionario. Andava in vacanza, chessò, in Turchia, e se c’erano dei disordini in Polonia, Franca s’agitava tutta di reale preoccupazione e terrore che lui ne fosse la causa e si stesse mettendo nei guai. Sì, lo so che la distanza, anche geografica, è notevole, ma tale era la “logica” di Franca. Appena i media davano notizia di qualche episodio di terrorismo, era il periodo!, ecco che lei, subito agitatissima, cercava di localizzare il figlio per vedere insomma se fosse in qualche luogo regolare oppure potesse essere stato lui. Poi, lo riconosceva regolarmente negli identikit. Uomini e donne, alti e bassi, grassi e magri, giovani e vecchi, essì eccolo era proprio il figlio, magari appena camuffato. Ora che il figlio è distante, e lei non sa bene dove sia, è convinta che sia Bin Laden, sebbene gli manchino forse 20 o 30 centimetri per poterlo essere anche solo in lunghezza. Se un giorno vedete sui media un “tappo” tra poliziotti giganteschi dei corpi speciali che, dopo lunga assenza dall’Italia (e soggiorno non in aree islamiche), è stato arrestato come sospetto Bin Laden, tranquilli!, è il figlio maggiore di Franca e le uniche “solide” prove sone le telefonate fra Franca e la sorella Angela. Di certo lo avrà riconosciuto tra gli “attentatori” [le foto dell’FBI, lasciamo stare se fondate o meno; qui non importa] dei due grattacieli a NY.

Naturalmente la sorella, le telefonava: “Come va il figlio grande...”. E lei, Franca si sentiva trafiggere da quelle allusioni e sospirava si terrore di quel figlio che [nella mente malata di Franca!] sollevava le plebi polacche se andava in viaggio in vacanza Turchia, e che poi era regolarmente in tutti gli identikit di “brigatisti”. E lei Franca comincio ad estrinsecare la sua “preocccupazione” con tutti, per quel figlio grande capo rivoluzionario ...secondo le indebite credenze della madre. Parlava... parlava... Telefonava ...telefonava.

Lui, nel frattempo, al nord-nord dove s’era trasferito da quella cittadina di nascita nei dintorni della linea gotica, se n’era andato da casa (da moglie e figlia) ed aveva vissuto con altre ragazze. Un giorno, non so se a seguito di quei discorsi e telefonate della madre che il figlio dovesse essere un grande capo terrorista, il figlio fu veramente arrestato. Doveva essere la metà giusta del 1981. Fu arrestato a casa, la mattina prestissimo. Senza armi né indosso (stava domendo, nudo da trombate notturne con la bimba abitava allora con lui), né in casa. Portato nei sotterranei della Questura, dove restò una decina od una dozzina di giorni, lui si mise tranquillo a leggere dei libroni. Un’enciclopedia delle scienza e della tecnica in volumone singolo, I Demoni di Dostojevski, e non sò cos’altro. Era una cella piccola, col letto inclinato di cemento e bitume, senza fineste e con la luce sempre accesa. Il primo giorno neppure gli dettero da mangiare. Poi, dopo l’interrogatorio, forse il secondo giorno, od il terzo, gli dettero del pesce incartato che sembrava colla e quindi forse non era piaciuto ai secondini avrebbero dovuto dargli quello che arrivava non sò da dove. Poi gli arrivarono succulente cose da casa.

Intanto, i suoi gli avevano trovato un avvocato. Un imbecille. Un sinistro. Come può essere sinistro un imbecille che decida di fare l’avvocato penalista e simpatizzi, o dica di simpatizzare, per Il Manifesto. Naturalmente all’avvocato dissero: “Gli dica di confessare!” Lui invece all’interrogatorio tenne dapprima una linea molla: “Guardi, preferisco non rispondere per ragioni etiche.”

Ve l’immaginate uno che s’è letto tutte quelle cazzate sullo Stato borghese, sulla repressione, che poi si trovi tra poliziotti che neppure lo pestano ed un procuratore furbo che appena lui guarda verso la finestra (piuttosto lontana, e per riflesso condizionato non con intenzioni di saltare giù), esce e fa entrare un poliziotto che tira giù la saracinesca, e poi fa tutto il moderno: “Giocherò a carte scoperte...”. Si vede che per lui era un gioco. E poi faceva tutto l’aiutante ed il furbastro. Infatti, sapendo chi era l’avvocato, fece una breve pausa, per uscire dalla stanza dell’interrogatorio e dare tempo all’avvocato di sbottare: “Ma io non la difendo! Lei nega tutto!” E che alla risposta, “Ma guardi che non ne so davvero nulla di tutte queste storie che mi dice questo qui...”, farfugliò un non meno delirante: “Possimo vedere di fabbricare un alibi...” Ma che vuoi “fabbricare”?! Erano tempi che anche gli alibi più solidi venivano smontati arrestando ed incriminando i testimoni, così che divenuti imputati non potessero più essere testimoni. Al che, alla ripressa dell’interrogatorio, con quell’imbecille d’avvocato, lui passò da quel “Preferisco non rispondere per ragioni etiche.” ad un “No, non ne so nulla.” Finito l’inutile interrogatorio, se ne tornò nei sotterranei della Questura, tra poliziotti che strusciavano la ringhiera per bloccarlo nel caso lui si fosse lanciato nel vuoto delle scale e facevano chiudere l’entrata principale nel caso lui fosse corso verso la strada. Un giorno, dopo un dieci o dodici giorni di soggiorno totale lì, fu portato in un carcere speciale, quelli di massima sicurezza.

No, non ve l’immaginate. Non importa. C’è chi se i poliziotti lo pestano dice tutto quel che loro desiderano. Oppure dice tutto quel che loro desiderano perché non l’hanno pestato. E tanto più non ha magari nulla da dire, tanto più dice e dice per compiacerli e compiacersi. Ci sono quelli che odiano “il nemico”. E quelli che devono divenire amici di tutti. Nulla di tutto ciò nel caso di questo ragazzo arrestato. Era un curioso. Era davvero incuriosito da quella cosa inaspettatamente capitatagli.

All’uscita dall’interrogatorio, l’avvocato informò, suppongo, la famiglia che il figlio non aveva confessato. Aveva “negato tutto”. Al che nuovo tracollo psicologico di Franca che ricominciò a telefonare a tutti: “Ditegli, di confessare!”, “Confessa ed esce!” E poi a chiedere, sempre per telefono: “A me dovete dirlo cosa ha fatto!” Passando pure a cose più dementi del tipo: “Ma si drogava? Ecco, si drogava e avrà fatto quel che ha fatto perché era drogato.” C’è una certa logica naturalmente, nella pazzia: o uno è “marcio” oppure è deresponsabilizzato per esempio dalla droga o da altri eventi. “Ditemi dove teneva le armi, gli esplosivi, gli elechi dell’organizzazione, ...che così li facciamo sparire prima che la polizia li scopra!”

Le telefonate, naturalmente, erano intercettate. Infatti, proprio alla vigilia del trasferimento in carcere, gli andarono a chiedere, visto che non “crollava”, se fosse drogato. ...dopo dieci giorni che se ne stava lì tranquillo, tranquillo. Forze volevano offrigli una bustina o non so cos’altro di qualche sostanza...

In carcere stessa tiritera di Franca: “Ma com’è che sei così allegro?!”, “Ma perché sorridi e ridi?!”, “Perché scherzi?!”, “Pensa ad uscire!”, ed altre demenze tanto che lui, disgustato, chiese che i genitori non fossero più ammessi ai colloqui (così si chiamano le visite in carcere). Lo tenevano in carcere. Che almeno lo proteggessero da familiari rompicoglioni!

Franca continuava su quella linea con tutti. Che delinquente, che terrorista, che drogato [abbiamo già detto, forse, che non ha neppure mai fumato tabacco, né usato psicofarmaci]. Quando il figlio minore di Franca si sposò, fu quando il maggiore era ancora dentro, il commento della fidanzata fu: “Ecco, mi tocca sposare il fratello di un delinquente.” Quando lui fu uscito, stesso tono da parte di tutto il numeroso parentume. Certo c’era chi era più elegante e meno, o non, scemo. Ma c’era pure il solito parentume.

Verso la fine del 1987, lui era già fuori da un tre anni, l’ex-moglie, sempre più gelosa che la figlia non fosse tutta sua, gli tirò un bidone sulla base del discorso: “Natale coi tuoi e Pasqua con chi vuoi”, cioè Natale la figlia lo passa con me, tutti i Natali, e a Pasqua, magari, può pure vedere il padre. E non gliela fece più vedere. Franca, di fatto, riempì a suocera di soldi e sostegno per quella saggia decisione. E così fecero il padre ed il fratello, il marito ed il figlio minore di Franca. Motivazione ufficiale: “sennò non la fa più vedere neppure a noi” (...“e che gli racconto poi a mia sorella quando le telefono o lei mi telefona per sgridarmi?!”) Certo la colpa doveva essere del figlio se l’ex-moglie non gli faceva vedere più la figlia. Era un normale, normalissimo, sostegno tra paranoici. I paranoici s’intendono e si sostengono sempre tra loro. Certo, le forme possono cambiare... qui la forma fu questa. “Lei non ti fa più vedere la figlia. Noi la ricopriamo di soldi.”

Franca, invidiosa dei figli, divenne pure invidiosa della nipote. Invidiosa che fosse felice col suo ragazzo, collaborò coll’ex-moglie (la madre della “bimba”) perché il ragazzo della nipote sposasse un’altra, dunque mettendo fina all’amore tra i due, e pure in malo modo (fu un frettoloso matrimonio fatto combinare dai genitori di lui, per liberarlo da quella “figlia d’un delinquente”), e “liberando” così la nipote per farla irretire da una setta. Lo sapete come va il mondo. Se lavori gratis e dai i soldi ad una chiamiamola Settology quelli sono delinquenti che t’hanno condizionato ed asservito. Se, invece, la setta t’asserve e spilla soldi e lavoro professionale gratuito è una setta d’un “padre” della compagnia chiamiamola dei Gessiti, ecco che è cosa sana e santa e che tutti si guadagnano il paradiso.

Di individie ne avevano a valanga pure all’interno della famiglia d’origine. Il fratello maggiore o pseudo-maggiore, il bersagliere, da sempre senza figli, era andato a vivere nello stesso paesone della sorella Angela. Faceva comodo a tutti perché aveva sempre dato soldi ai figli di Angela. Ormai pensionato, malandato, abbandonati anche i vari floridi lavori da pensionato (rappresentanze di saponi in polvere vari, credo), gli era morta la moglie. Era ormai un peso per Angela, averlo nello stesso paese e con la prospettiva di doverselo prendere in casa o comunque d’assisterlo, sebbene, in realtà, avrebbero potuto farlo assistere senz’oneri per nessuno. Così, con Franca, gli tirarono un bel bidone. Trovarono una baldracca sicula con figli ma senza marito (deceduto suppongo), sorella di dei tizi che Franca e marito avevano vagamente conosciuto in passato perché abitavavno nello stesso palazzo ed avevano un negozio di ferramenta nei pressi. A questo povero fratello malandato, fecero vendere tutto (villetta, auto) e gli fecero sposare quella baldracca. Si trasferì in Sicilia, a casa di lei, o di lei e figli. Gli presero i soldi della casa venduta ed altri aveva da parte. Lo tennero in vita il tempo giusto per avere la pensione di riversibilità dello Stato. Poi l’ammazzarono. In modo “pulito”, certo. Uno è malandato. Umiliato da qual matrimonio del tipo: “ti scarichiamo a quelli che così t’assistono”. E quando non servi più, perché i soldi te li han presi tutti ed il tempo per la riversibilità della pensione dello Stato è maturato, te la mennano al punto che vivi la morte come una liberazione.

Quando il figlio “terrorista” o “delinquente” fu assolto, poteva essere primavera del 1990, fu un colpo per tutti. Ci furono parenti sbiancarono. Altri ebbero crisi di nervi. Per Franca fu un colpo durissimo. Riempì di ancor più soldi l’ex-moglie che operò per farlo mettere sotto mobbing e poi farlo licenziare dal posto pubblico dove era stato di conseguenza riammesso, oltre che far far irretire la nipote da una setta d’un “padre” della compagnia chiamiamola dei Gessiti. E, naturalmente, fu diffusa la balla, invero non troppo auto-consolatoria, per loro, del “l’hanno assolto per insufficienza di prove.” In Italia, l’insufficienza di prove non esiste da forse un tre decenni. Certo, lo dicono e lo scrivono che c’è tuttora. Ma sono balle. Chi è assolto lo è e basta. Anche logicamente non significa nulla “l’insufficienza di prove”. Certo, che se hanno le prove, o ritengono di averle, o fingono di averle, uno lo condannano. Chiunque non sia mai stato neppure denunciato è sempre per “insufficienza di prove” che non lo è stato. Tutti gli incensurati sono incensurati “insufficienza di prove”! Una cosa è discutere, dei casi famosi, questo non lo era, di innocenza o colpevolezza dal punto di vista storico. Ma da, appunto, forse un trent’anni, dal punto di vista legale, s’è assolti o condannati e null’altro. Non esistono più formule intermedie. ...anche se appunto tutti (inclusi procuratori ed avvocati dello Stato) continuano a dirlo. Questo parentume lo diceva per invidia e per autoconsolasione del tracollo subito da quell’assoluzione.

Dunque, Franca, oltre a tutte le cose precedenti, ed oltre a cose contro un po’ tutti, per questo figlio maggiore che non s’era mai granché sottomesso alle sue paranoie e pazzie, voleva, certo “per il suo [del figlio] bene” [è il leit motif di tutti gli alienati!], che “confessasse”, lo voleva condannato (dunque pubblicamente ed ufficialmente menomato in qualche modo), ed ha di fatto pagato, è quasi un ventennio ora, la nuora prima per non fargli vedere la figlia (che dopo la laurea s’è fatta suora con vocazione alla contemplazione ed alla clausura), poi per farlo mobbizzare e licenziare dal posto pubblico in cui era. Più varie altre infamità connesse ancora in corso.

È una vita così... Sono delle vite così...

...Ci riferiamo a quelle di invidiosi e folli.