martedì 31 ottobre 2006

MaximaImmoralia. Squallide storie di bustarelle pubbliche. Rosaria e Maria, e tutti gli altri. 31.10.2006

MaximaImmoralia. Squallide storie di bustarelle pubbliche. Rosaria e Maria, e tutti gli altri. 31.10.2006
by Georg Rukacs

Prima metà anni ’90, tendenti verso il mezzo degli anni ‘90. In un posto sperduto di Mediterranea, naturalmente. Città di Tauronia. Ufficio Pensioni Speciali di Miraflores. Rosaria e Maria. Rosaria, sikelica. Maria, calabrica. Isa, la capufficio, sikelica. Il capo reparto, Cianko, sikelico. Il direttore, campanico, sedicente calabrico-campanico.

Non che fossi arrivato subito lì, dopo i nove anni di sospensione. M’avevano mandato nel posto più distante della regione. Certo c’erano delle ragioni. Più delle infamità, invero, che delle ragioni. Quando uno viene sospeso, se poi la sospensione cessa, ritorna, salvo circostanze particolari, nel luogo da cui è stato sospeso. Nel caso specifico sarei dovuto ritornare nella sede centrale di Tauronia, la capitale di quella regione di Mediterranea.

C’erano tuttavia delle circostanze decisamente aggravanti. Non ero stato sospeso per ragioni d’ufficio. Non ero un corrotto. Neppure sospettabile d’esserlo. Neppure mezza voce. Ero troppo fanatico o troppo scemo o entrambi. Lo sono restato.

Di corrotti, e ben corrotti, sebbene poi prosciolti, ne ho poi incontrati. Li avevo visti sui giornali tra ville con piscine che impiegatucoli neppure si potrebbero sognare. Prosciolti, erano stati premiati. Erano ben inseriti nel sistema. Li avevano riammessi dov’erano prima e poi promossi capetti e capi. Il magna-magna s’era fatto abbuffata ancor più alla grande.

Il mio, durato nove anni, era un processo per terrorismo. Terrorismo rosso. Ero stato assolto. Tra l’altro in Mediterranea, checché ne scrivano gli scribacchini di regime, e chécché ne dicano tutti gli invidiosi da strada, tutte le assoluzioni sono con formula piena. Non esiste l’insufficienza di prove. In effetti, se si volesse rimenarla con l’“insufficienza di prove”, tutte le assoluzioni, come tutti i neppure processati, sarebbero per “insufficienza di prove”. Per cui, se propri fa piacere ai soliti forcaioli, si potrebbe dire che tutti coloro che neppure hanno mai avuto che fare con i circuiti giudiziari, inclusi i vari Travajùn moralisti senza moralità, non ne hanno avuto a che fare per “insufficienza di prove”.

Dunque, prima aggravante, non ero un corrotto, né sospettato, né sospettabile d’esserlo. Seconda aggravante, funzionario, con la prescritta laurea, quando la stragrande maggioranza la prescritta laurea non la ha. Sono tutti illegali. Nel settore pubblico tutto è illegale, in Mediterranea. Contano altre cose. Non le leggi, non le forme, neppure le sostanze. Conta altro. Poi, aggravante decisiva, c’era una ex-moglie, con cui non ero in contatto, che nel frattempo s’era fatta sindacalista “regionale” d’un sindacato di cui lì era l’unica iscritta. La solita corrotta, funzionaria senza laurea e con altre invidie contro tutti e tutti, ma ben centrate contro di me perché ero il “rivale” per una figlia da lei follemente percepita come suo unico vero simbolo d’esser qualcuno.

Quel sindacatino di cui lei era in quella città e regione l’unica iscritta e dirigente era una di quelle cose che succedono proprio nel settore pubblico. Forse era un sindacatino presente nella capitale dello Stato. Ma lì, in quella regione, c’era un’unica iscritta, e quindi dirigente unica di quel sindacato, che partecipava alle riunioni regionali del soviet sindacale della regione in cui era ed è d’obbligo l’unanimità. I direttori sono tutti sindacalisti o sindacalizzati che sono avanzati grazie ai sindacati e che non hanno grane solo se tutti i sindacati li sostengono unanimi. Che significa che devono farsi sostenere da tutti i sindacati. Quando ero ancora sotto processo, forse ancora in detenzione, parenti squinternati (uno si sceglie sé stesso, chi vuole essere, non si sceglie i parenti, né è d’essi responsabile) avevano, tra altre follie del periodo, chiesto “consiglio” all’ex-moglie che aveva detto loro: “Lui confessa. Si fa condannare. Poi lo riammettono in servizio senza problemi.” Non avevo confessato. Anche perché, a dire il vero, non avevo nulla da confessare.

Assolto, un’accoglienza speciale era pronta. S’era scatenata un’autentica invidia ribollente in tanti, troppi, parenti prossimissimi inclusi, che fossi stato assolto. Infatti, appena i solerti parenti prossimi avevano informati “preoccupati” l’ex-moglie che ero stato assolto (già la pagavano e sostenevano da qualche anno perché non mi facesse vedere la figlia [non si pensi ad alcuna ragione strana, parenti ed ex-moglie folli a parte: mai insidiati bambini, tanto meno figli e figlie!]), appena questa si riebbe dal collasso e dalle esplosioni la colsero allorch’ebbe la notizia, corse dal direttore regionale (del resto lei lavorava proprio alla sede regionale), oltre che da altri vari sindacalisti che lei sapeva sensibili ai suoi deliri (in particolare, una stramba confidente di polizie d’un sindacato sinistro), a dire che ero stato assolto, ma che ero sicuramente colpevole, e che non solo ero sicuramente colpevole di crimini gravissimi, ma ero un vero delinquente che, se riammesso in ufficio, avrei creato chissà quali catastrofi. Il direttore regionale rispose che non riammettermi in servizio proprio non potevano, tuttavia avrebbero fatto il possibile per farmi rapidamente licenziare.

Mi mandarono dapprima in un posto dove m’occorrevano almeno cinque ore di treno, più altro tempo sui mezzi pubblici urbani, per raggiungerlo e tornarne indietro. Dalla direzione regionale si vergognavano a fare quel provvedimento di riassegnazione, tanto quel provvedimento era illegale ed al di fuori d’ogni costume, ma tanto loro sono la legge ed alla fine fanno quello che vogliono senza alcun controllo. Così fecero fare il provvedimento alla direzione generale nella capitale. Nessuno, neppure lì, ebbe il coraggio di firmarlo. Sotto ad esso v’era solo una sigla incomprensibile senz’alcuna indicazione del nome di chi l’avesse assunto. Raggiunto il posto sperduto, il primo mese neppure mi dettero lo stipendio. Mi venne rifiutato anche un anticipo. Solo dopo riuscii a farmi dare regolarlmente lo stipendio ed i cospicui arretrati mi spettavano dopo 9 anni di sospensione.

Poi vi fu uno dei soliti concorsi burla, sebbene non tutti lo passassero, per passare funzionario. Io, comunque, almeno la laurea l’avevo. In genere non l’aveva quasi nessuno. Le leggi le fa non so chi. Le “leggi” interne le fanno le mafie sindacali e dirigenziali, per cui l’abbuffata delle promozioni a quasi tutti l’avevano decisa loro. Naturalmente, passato funzionario, il posto non c’era. Ancora meno per rme. Ad alcuni lo davano. Per la maggioranza non c’era. Presi il regolamento interno. Il regolamento interno, piuttosto recente, e le stesse leggi, piuttosto recenti, dicevano che si può essere adibiti a mansioni inferiori solo per tre mesi. Dato che la promozione era retroattiva, i tre mesi erano già passati. Pretesi il posto mi competeva. Non mi fu dato. Attesi me lo dessero. Andavo e tornavo da quel luogo sperduto, con ore ed ore di treno all’andata ed al ritorno e cambi di treni in stazioni varie, e sedevo lì senza far nulla perché non c’era lavoro per me.

Intanto i direttori sia locali che regionali che centrali cambiavano. Fu solo dopo un lungo periodo che mi dettero un lavoro, come capufficio, nella sede più sbagasciata di Tauronia, dove comunque non fui trasferito. Fu solo un’assegnazione provvisoria. Naturalmente, anche lì era subito arrivata la rete dei sindacalisti mafiosi di Tauronia. Affianco a chi non faceva nulla per vocazione, c’era chi sabotava per fede. Anche lì, la rete dei sindacalisti sinistri folli d’era attivata... C’era anche chi lavorava moltissimo. Un paio. Eccezioni. Il direttore del loco, un sikelico credo, o comunque un suddico, era naturalmente lì in transito e l’unica cosa che voleva era mettersi contro un qualunque sindacato. Già il direttore precedente era stato rimosso e mandato alla sede regionale ad occuparsi di “statistiche” (in pratica non faceva nulla; quando dalla capitale chiedevano numeri, lui contattava la varie sedi per farseli dare e poi li sommava: cosa da licenza media inferiore) perché il giorno in cui il direttore generale era passato in visita a quella sbagasciata sede, un sindacatino di estrema sinistra (un sindacatino la cui nascita era stata favorita proprio dal direttore generale) aveva distribuito un volantino contro il direttore.

Mentre lavoravo lì di gran lena, nonostante menefreghismi e veri e propri sabotaggi, uscì (o forse era già uscito poco prima) un concorso regionale per trasferimenti. Naturalmente feci domanda per tornare dove ero in origine, prima della lunga sospensione. Il posto, in quella sede, e per la mia qualifica, nel bando di concorso c’era. Anche più d’uno. Fui, naturalmente, il primo, primissimo, della graduatoria del concorso, perché era un concorso per titoli e nessuno con la mia anzianità ed altri titoli aveva aveva problemi di trasferimenti. Secondo il concorso sarei dovuto dunque ritornare nelle sede centrale di Tauronia.

Naturalmente, in un settore pubblico dove tutto è burla, ai risultati del concorso non fu data esecuzione. Ero primo in classifica e non fui trasferito dove, secondo il concorso (concorso specifico per trasferimenti), mi spettava. Mi dissero che, o restavo di fatto, senza neppure un trasferimento formale (sì che poi potessero dire che ero stato io a voler restare nella sbagasciatissima sede in cui l’avevano mandato), nella sede dove ero stato provvisoriamente assegnato, oppure nulla. Scaduto il trasferimento provvisorio dove mi trovavo, mandai una lettera in cui scrissi che mi spettava il trasferimento definitivo secondo concorso e che, comunque, scaduta l’assegnazione provvisioria in quella sede, non potevo certo restare di mi iniziativa lì dov’ero. E me ne tornai nel posto che raggiungevo e lasciavo con 5 ore di treno (quand’arrivava; quando c’erano problemi di concidenze o disastri sulla linea, dovevo tornarmene indietro e darmi malato) e dove non facevo nulla dato che il posto per me, secondo la mai qualifica, neppure c’era. Intanto i direttori regionali si susseguivano.

Alla fine, arrivai lì a Miraflores in Tauronia. Mi trasferirono lì: “O vai lì, o resti là in mezzo ai monti a fare il pendolare per sempre.” Anche lì, lungue dispute sulla mia qualifica che non avevano alcuna intenzione di riconoscermi. L’avevo. Ma nel settore pubblico contano solo le mafie. Le chiamano cordate od altre connessioni o pressioni irresistibili. Ma sono solo mafie. Pretesi il posto da funzionario. Prima il tribunale amministrativo dette ragione a me. Poi fu lo stesso tribunale amministrativo a dire loro che facendo ricorso e presentando una qualche motivazione anche del tutto fasulla avrebbero dato ragione a loro. Così fu. Allora inizai a lavorare davvero.

Naturalmente, dopo tutte le lunge ed alterne traversie e scontri, il direttore campanico, il signor Pappone, divenuto dirigente per mafie sindacali di sinistra e poi passato ad altre coske, uno di quelli che si considerano più guappi di tutti e devono pure atteggiarsi a tali, fece una lettera (un ordine di servizio) in cui m’incaricava in pratica di fare tutto dichiarando che io sapevo fare tutto. Una buffonata. Con le stesse impiegate dei mille lavori avrei dovuto fare che mi dicevano che il lavoro era loro e non volevano altri tra i coglioni. Tanto lo sapevano tutti e tutte che gli atti deliranti del direttore erano solo scemenze in atteso di trovare come fregarmi. Finii dunque a fare una delle tante cose, quella più in vista (nella lettera o ordine di servizio, non più in vista come “prestigio” od altro che non mi interessava), erano nella lettera tuttonica del direttore e dopo avere chiesto alla capufficio di uno dei due differenti uffici ai quali ero stato assegnato in contemporanea, pur non potendo dividermi in due pezzi.

Ed iniziai a fare le pensioni speciali. Tutti seguivano lunghi corsi. Siccome io dovevo essere onniscente, dovevo farle per onniscenza. Mi lessi un po’ le circolari. Poi, le due impiegate le facevano, Rosaria e Maria (credo avessero paura, dato la fama di cui ero stato circondato), quando chiesi loro che dovessi fare me lo dissero. Anzi, si misero a “studiare” con me. Speravano evidentemente che le cose andassero per le lunghe e che il lavoro non facevano in due non lo facessimo neppure in tre. Loro più o meno sapevano quel che dovevano fare. È che non gli andava di farlo. L’ufficio era il loro potere. Il potere di non fare. In Mediterranea funziona così. Hai un posto intoccabile. Non fai. Dunque sie potente. Ed incassi.

Quando arrivavano utenti, se li facevano sedere di fronte alla scrivania e con ara pomposa dicevano, che avrebbero visto, avrebbero valutato, avrebbero esaminato il caso, avrebbero fatto tutti gli accertamenti. Sospiri. Sorrisi. Era un gioco tra gatti e prede. Tra corrotte e polli.

Invece era tutto molto semplice. C’erano dei requisiti. Si trattava di vedere se ci fossero. Ad ogni modo, in genere, eventuali distrazioni venivano corrette dal computer che ti rispondeva che i dati non erano corretti od i requisiti non sembravano sussistere. Le tessere coi contributi di quei futuri pensionati speciali erano predisposte da loro uffici del personale che sembravano discretamente efficienti, od efficaci, per cui era tutto chiaro e ben fatto per poterci lavorare sopra. Si trattava di fare delle medie non complicate. Si doveva poi accedere a delle banche dati centrali per chiedere i dati non s’avevano già sott’occhio. Se non c’erano subito, si inseriva la richiesta, per cui si doveva attendere, ma non molto, che i dati contributivi arrivassero. Per cui, ogni tanto, anche quotidianamente, se non s’aveva altro da fare, si doveva controllare fossero arrivati. C’era pure un ulteriore vantaggio. Che le liquidazioni erano provvisorie, dato che i programmi dei computer non erano programmi definitivi. Per cui, in attesa ci fossero i programmi giusti, si facevano delle liquidazioni appunto provvisorie con lettera all’utente che la liquidazione non era da considerarsi definitiva e che eventuali indebiti da futuro ricalcolo sarebbero stati recuperati a liquidazione definitiva. Tra l’altro le pensioni erano in genere relativamente alte. Non farle poteva essere un buon affare. Si sa che tutta la corruzione sulle pensioni si basa sul non farle. Per cui, si accumulano arretrati e poi, l’utente, pur d’avere il dovuto, sgancia. Certo c’è anche chi sgancia anche se la pensione viene fatta subito. In certe remote o non remote aree dove si vive l’ufficio pubblico come estraneo, che quello che ti dà cade dal cielo, chi va in un ufficio pubblico dove si erogano soldi va ben provvisto. Apre la porta coi piedi, si diceva un tempo. Dipende probabilmente anche dalla “reputazione” che si crea e ci si crea. Se l’utente si vive come schiavo anziché come cittadino, e l’impiegato come boss anziché come lavoratore, gli ingredienti corruttivi sono ben combinati. Se invece uno è cittadino e si trova fronte lavoratori che devono dargli un servizio dovuto, gli ingredienti della corruzione mancano.

Io ero piuttosto freddo. E se solo si provavano anche solo ad alludere divenivo ancora più freddo. In poco tempo fu tutto aggiornato. Spesso arrivavano utenti con tutta la documentazione completa. Consultavo le banche dati. Se i contributi c’erano tutti, e loro mi chiedevano ansiosi quando sarebbe stato possibile avere la pensione fatta, rispondevo gelido che per quel che mi riguardava l’avrei immessa nel computer entro un paio d’ore e che poi sarebbe tutto dipeso dai tempi tecnici del centro di calcolo. A volte qualche giorno, a volte un paio di settimane. Per cui salvo errori, e necessità di riimmettere i dati, i tempi erano quelli. E che, ci fosse stato comunque qualche problema (qualche documento scopertosi mancante), li avrei contattati, ma che mi sembrava ci fosse tutto e fosse tutto in ordine. Mai essere troppo sicuri (intoppi od errori erano sempre possibili), ma neppure lasciare troppo sul vago. Tra l’altro erano spesso mandati dai loro uffici del personale che sapevano il fatto loro e dunque con tutto il necessario per avere presto, sempre che lì avessimo fatto il dovuto, la loro pensione. Mi guardavano allibiti. Confermavo che per quel che dipendeva da me, avrei fatto tutto subito. Ed era vero. Sebbene fossero in due, e poi in tre con me, e le due avessero creato, come da prassi negli uffici pubblici, l’arretrato d’obbligo per lavorare “felici”, avere straordinari ed eventualmente creare forme di dipendenza ed altro con gli utenti, lì c’era giusto lavoro per una persona e neppure abbastanza. Non c’era motivo non facessi tutto subito, quando possibile.

Qualche raro caso di pensioni non si potevano fare lì, dissi chiaro agli utenti, che lì non c’era nessuno potesse farle, che non c’erano i programmi, e che bisognava rompessero le scatole al direttore ed ai direttori più in alto, perché sennò i capiufficio promettevano e promettevano ma poi continuavano a non fare e non dare quanto a loro utenti era dovuto. Alias, li prendevano in giro. In effetti, c’erano taluni aspettavano la pensione da anni, solo perché nessuno s’attivava per mandarla in una sede dove potesse essere fatta oppure per far venire lì qualcuno sapesse qualche trucco su come farla. Erano pensioni non potevano esser fatte coi programmi disponibili o c’erano altre particolarità lì nessuno padroneggiava. Impiegati e capufficio prendevano solo in giro l’utente. “Vedremo... Sentiremo... Ritorni...” Erano tutte balle. Erano cose lì non potevano essere fatte. Per cui si dovevano seguire altre vie. Era nel loro stile di impiegatucoli tira-a-campà che li induceva a ingannare l’utente. Quando poi le cose uscirono sui giornali (credo qualcuno, o qualche familiare o conoscente, sollevò la cosa su qualche giornalone), le cose, anche lì con dilazioni incredibili, visto il menefreghismo di tutti, soprattutto di chi poteva e doveva, furono fatte, o almeno sostanzioni anticipi furono dati ad utenti era anni aspettavano fior di quattrini loro dovuti.

Man mano che, piuttosto rapidamente, misi tutto in ordine e liquidai [feci e misi in liquidazione le pensioni] pressoché tutto il liquidabile, riducedomi poi a lavorare soprattutto sul giorno per giorno, le due, Rosaria e Maria divenivano sempre più nervose. Si lamentarono con la capufficio e col direttore che facevo tutto subito. Arrivò un’ispezione regionale. Nulla di irregolare. Fu mandata un’esperta dalla sede di Tauronia centro. Le avevano detto che ero uno che sabotava il lavoro e che non la sarei stata neppure a sentire. Forse, se ben ricordo, le dissi che non avevo fatto alcun corso, che sapevo quel che mi avevano detto le due erano lì e quel che avevo visto dalle circolari e leggi avevo consultato. Intanto, presi appunti sui suoi rilievi su come far meglio il lavoro. Non trovò comunque nulla di abusivo né di irregolare. Normali errori da inesperienza. Ma nessuna irregolarità permettesse di fare alcunché contro di me. Anzi, disse poi piccata a qualcuno le aveva chiesto, che era restata stupita dal mio atteggiamento: la stavo a sentire e prendevo appunti, mentre le avevano detto che non l’avrei neppure ascoltata e magari l’avrei pestata. Era pure stupita da alcune innovazioni tecniche m’ero inventato di mio. Invece che firmare il modulo di quello che avevo immesso, avevo trovato il modo di stampare la schermata di quanto avevo immesso: così quello che firmavo era quello che effettivamente avevo immesso nel computer non quello che avrei dovuto immettere; un vantaggio di trasparenza ed affidabilità. Pure su quello la direzione avrebbe voluto montare qualche bicicletta...

L’esperta dalla sede di Tauronia centro, la sede provinciale, era stata prevenuta dal circuito di sindacaliste corrotte ed incarognite della ex-moglie e complici che mi avevano così caldamente “raccomandato” con tutti e che mi seguivano costantemente “raccomandandomi” con tutti coloro venissero in contatto con me. Era facile, almeno dove e quando trovavano complici. Lì a Miraflores, per esempio, agivano in accordo col direttore per vedere di trovare il modo di rovinarmi. Il direttore creava le situazioni e le comunicava alla sindacalista sinistra assegnata come funzionaria al centro formazione regionale (un posto in cui non faceva nulla, chiacchiere e servizi infamo-polizieschi a parte) che s’occupava di contattare l’uno o l’altro, l’una o l’altra. C’era chi era onesto e chi non lo era ed era pure scemo. Me lo disse lei stessa, l’esperta mandata dalla sede provinciale, in quell’occasione. Così come già altri prima e dopo mi avevano confermato la cosa. C’era ora la sindacalista di sinistra che faceva la boss mafiosa presso il centro formazione regionale, ora altri del giro, che li contattavano per infamità varie dirette contro di me. Al direttore di Miraflores non interessava il lavoro fosse fatto, tanto le statistiche per incentivi e premi vari sono regolarmente truccate in quegli ambienti lì. Gli interessava farmi fuori, visti i conflitti precedenti in cui avevo semplicemente chiesto un lavoro per la mia qualifica e viste le pressioni aveva ricevuto dalla rete attivata da ex-moglie e sindacalista sinistra mafiosa. Del resto lui era divenuto dirigente, da impiegato, proprio grazie a quel sindacato sinistro, anche lì in Tauronia... ...le mafie pretendono sempre il pagamento dei debiti. Inoltre, la capufficio Isa, da cui dipendevano le pensioni speciali, era quella che era.

Andiamo con ordine.

Rasalia, la meno giovane delle due impiegate delle pensioni speciali, era una giovane sikelica invidiosa. Che fosse invidiosa lo si capiva su commenti faceva sugli altri, soprattutto sulle altre. Era incarognita col marito perché scopava con le colleghe, di non so quale ufficio di quale impresa privata o pubblica. Cosa che faceva pure lei perché scopava, suppongo, con uno di lì le ronzava sempre attorno. Un ragazzotto simpatico. Forse sikelico pure lui, ma in verità non ricordo bene. Certo era suddico. Tra l’altro, Rosaria, doveva avere somatizzato suoi problemi psicologici ed esistenziali, perché le era venuto un qualche tumore al seno. Visto il tipo, doveva essere legato a qualche problema d’invidia nella sfera sessuale. Non è comunque importante. Ci s’ammala anche per caso talvolta, forse. Dunque, se la faceva, almeno a livello di colazioni e di passeggiate assieme, con un giovanotto anche lui sposato che le ronzava sempre attorno con aria affabile ed intima, intimissima. Un giorno il suo amico non venne. Poi la riaccompagnò ma non entrò nella stanza, e neppure nell’ufficio. Dall’entrata dell’ufficio guardò verso di me con aria sorridente, ma strana. Poi, lei, Rosaria, in mia presenza e diretta a me, cominciò a ripetere ossessiva che lei aveva famiglia, marita e figlia, che voleva bene a loro... Io risposi che non me ne fregava nulla e che non mi impiccio dei fatti altrui. Era vero. Soprattutto lì dove non parlavo, se non per finta, con nessuno.

Mi fu comunque subito chiaro che cosa era successo. Il direttore, o qualcuno per conto suo, doveva avere detto ai due che io dovevo avere criticato la loro “amicizia”, insomma il fatto fosseso amanti (se lo erano). Semplicemente, non avevo mai parlato di lei né dell’altra con nessuno. Per cui il direttore, o chi per lui, s’era inventato tutto. S’era inventato tutti per i suoi fini di fottermi. Aveva trovato, lì, le sceme giuste. In genere il tipo morboso, ti fa domande, allusioni sorrisetti. Oppure quello maniacal-moralista ti guarda con disprezzo. Nulla di tutto ciò. Non facevo nulla di tutto ciò. E neppure avevo mai parlato di loro con nessuno. Crimine più grave, facevo il lavoro che loro, che lo sapevano fare da prima arrivassi io lì e magari meglio di me, non facevano. Ma a loro, non interessava fare il lavoro. Interessava coltivarsi il loro centro di potere. Comico un giorno che arrivò una, non mi ricordo se del luogo e del sud, che sembrava già essere stata in contatto con loro e doveva averle supplicate di farle avere la pensione. Loro avevano detto di sì, in particolare Rosaria. Arrivata la pratica a me, visto che poi il lavoro lo facevo io, mentre loro cazzeggiavano in giro non so bene facendo cosa, dissi loro che non era fattibile perché non sussustevano i requisiti. Era vero. Passarono giorni e giorni, soprattutto Rosaria, a frugare tra circolari e leggi per trovare qualche appiglio, per farla lo stesso. Non era fattibile. Credo che non avesse l’età, o la quantità sufficiente di contributi. Non sono cose si possano inventa re, né su cui si possano trovare appigli. Confabularono pure con la capufficio. Avevano promesso alla loro cliente. L’avevano rassicurata. S’erano sbagliate. Non sapevano come dirglielo o non potevano dirglielo. A me sarebbe stato semplice dire ad un utente che m’ero sbagliato. Quando crei un legame di clientela, o chissà di cos’altro, è chiaro che una, invece, non sappia come dirglielo.

Maria, l’altra impiegata delle pensioni speciali, era una ragazzotta calabrica sposata da poco. Un giorno mi fece un discorso strano il sui senso poteva essere che me l’avrebbe data. La guardai gelido. Anche lei giovane, più giovane dell’altra, ma ben pomposa e matronesca quando si faceva accomodare qualche cliente di fronte alla scrivania e ponteggiava prosopopeica non so ben su cosa. Una sul pazzo ordinario. Di quelle che d’estate tirano giù tutte le saracinesche e poi accendono la luce al neon perché c’è buio. Un giorno disattivai il neon. Quando venne l’elettricista, mi fece pena. Glielo dissi all’elettricista che era solo svitato. Al che, lei, appena lo seppe, ebbe una crisi isterica. Disse che era stata obbligata a rovinarsi gli occhi lavorando, ah già perché oltre a non far nulla faceva pure dello straordinario!, al buio ...se tirava giù le persiane... Poco dopo, o il giorno dopo, la capufficio venne con aria piccata e materna a chiedermi: “Ma cosa t’abbiamo fatto?!” Le risposi calmo e quieto che non sapevo bene di cosa stesse parlando. Scappò con la voce rotta dal pianto.

Ecco Isa, la sikelica capufficio. Una democristiana matronesca, che faceva le pensioni da sempre, e che, alla fine, matrona delle matrone, sempre incerta se andare in pensione oppure continuare, era divenuta capetta. Una che non s’affannava. Per lei, la forma era tutto. Sposata ad un funzionario di polizia, costui un bel giorno, gira oggi, gira domani, s’era innamorato d’una ragazzetta e pure lei doveva essersi innamorata di lui, se erano divenuti amanti. Pure lei, la moglie, e dunque tutti, doveva esserlo venuto alla fine a sapere. Democristiana e cattolica di ferro, non doveva essere stata capace di scopare anche lei in giro se le piaceva, oppure di disfarsi del marito se lui non la scopava più oppure se a lei non piaceva scopare. Troppo semplice. Doveva avere affrontato lunghe discussioni con lui ed alla fine trovato un compromesso: che lui pranzasse (lo spuntino della pausa pranzo negli uffici, in pratica) con lei tutti i giorni sì che tutti i colleghi e colleghe dell’ufficio potessero ben vederla col marito; ah, avrà anche preteso che lui rinunciasse alla ragazzetta ed a trovarne altre: non ho idea dei dettagli e sviluppi della cosa; neppure so quando si fosse verificata; so solo che in effetti la vedevo talvolta a pranzo col marito in uno dei bar sotto l’ufficio con lei tutta rigida per quel marito prodigo ritrovato (o così dava ad intendere) dopo che lui s’era invaghito d’una ragazzetta.

Isa, questa matrona pretenziosa, era di quelle “aristocratiche” (o solo montate) e buone per autodefinizione. Ma come lavoro... Sta di fatto che non mi firmava le pratiche che io facevo rendendo dunque impossibile, a seguire le regole, mandare poi i libretti di pensione e gli arretrati agli utenti. Non ci pensai due volte. Facevo tutto senza la sua firma. Prima gli utenti avevano soldi, poi che lei se la prendesse comoda. Ma lei s’ammucchiava tutto nel suo ufficio. Era un’altra che amava le processioni di utenti cui contargliela matronesca di “vedremo, faremo, valuteremo”. Forse le pratiche le archiviai perfino senza che lei le firmasse. Anche perché poi, se occorreva, andarle a cercare tra le tonnellate di pratiche accumulate nel suo ufficio... Nessuno m’ha mai detto nulla. Nessuno mai mai arrestato né chiesto soldi per pensioni indebitamente erogate. Neppure sollevato l’irregolarità formale che le mettevo in pagamento senza che lei le avesse firmate. Ero coperto da quella lettera d’obbligo che essendo liquidazioni provvisiorie, sarebbero stati poi recuperati eventuali indebiti. Ma ero ancor più coperto dalla logica del fare. Qualcuno avesse mai obiettato qualcosa, avrei detto la verità: l’utente ha diritto al dovuto; se una si tiene le pratiche per settimane e mesi senza firmarle sono problemi suoi, non una ragione per non erogarle tanto più che si era coperti da quella lettera connessa al fatto che le pensioni erano provvisorie. Non fu per questo che il direttore avviò la procedura di licenziamento. Semplicemente disse e fece dire e dichiarare che non facevo nulla. Lo vedremo dopo.

Ah, naturalmente, mi ronzava attorno tutta la comunità delle spione. Valeria, di un ufficio in cui era precedentemente stato, era una che veleggiava verso l’anzianotto ma che continuava ad ostentarsi, e che scopava solo con direttori ed uomini d’affari. Il marito, un industriale, era anzianotto, per cui lei, periodicamente, andava in viaggio da sola, crocere soprattutto, alla ricerca di uomini soli da cui farsi trombare. E poi s’attaccava a tutti i diririgenti le passavano sotto il naso per divenirne informatrice e vedere se la chiavavano. S’era fatta montare una volta pure dal direttore campanico appena arrivato. Lui poi l’aveva raccontato in riunione sindacale al soviet dei sindacalisti, giustificandosi: “...ha il marito anziano...” Lei avrebbe voluto continuare. Era lui che non voleva. A lui bastava la sottomissione d’una volta e che lei fosse informatrice e provocatrice sua. Allora, lei, predisposta all’infamia, mi ronzava attorno, sia perché avrebbe voluto farsi montare pure da me (le avevano detto che ero un gran delinquente ed un gran terrorista, cosa che poteva supplire, ai suoi occhi, al fatto non fossi né direttore né industrialotto) ma ancor più per vedere di estorcermi chissà quale segreto da riferire al direttore e cercare così di rientrare nelle sue grazie di letto. Ti fai montare da uno per godere a farti dare informazioni che poi dai all’altro sia per compiacere la tua predisposizione all’infamia che nella speranza ritorni a montarti: logica ineccepibile. Era di famiglia. Già la madre, erano dei confini orientali, durante la guerra la dava ai soldati d’occupazione krukki, che s’invitava a casa, per consolarsi del marito che era in guerra a sua volta. Mi s’agganciava quando andavo a mangiare. Se riuscivo ad inventarmi qualche balla che lei potesse riferire, bene. Se invece, preferivo parlare di nulla, lei riferiva le cose più stravaganti. Diceva, per esempio, ascoltai alcune sue allarmate telefonate quando era più in calore ed agognava una monta dal direttore, che doveva parlargli urgentemente. Poi, gli si avvicinava per farle sentire il contatto del suo corpo e tutta vampata di finta preoccupazione gli diceva che avevo detto che lo avrei infilzato di coltello e squarciato dalla pancia alla gola o viceversa. Per rendere più realistico il suo racconto le allungava la mano verso il basso ventre, nell’area dell’uccello. E così via, con varie variazioni sul tema. Il direttore riferiva poi queste cose alla direzione regionale (non che Valeria gli toccava l’uccello nella speranza lui la montasse, ma le balle lei riferiva su ciò che non avevo detto) dicendo che gliele avevo dette io a lui in ascensore. ...Così va il mondo...

Sempre il direttore, mi mandò qualche d’un’altra strombazzata da tutti o che si trombazzava tutti che mi si fece sotto in base alla solita logica: “Te lo porti a letto. Lui si lascia andare. Tu mi riferisci.” Cercarono d’agganciarmi con discorsi “irresistibili”. Me ne viene in mente una, un po’ tardona per i miei gusti, che mi venne sotto con grande “maestria”. Cominciò col dirmi che il direttore s’era vantato con loro che, appena arrivava in una sede, tutte le troiazze del luogo andavano a mettersi a sua disposizione per ogni bisogna. Io la guardavo. Continuò che secondo lei il direttore era uno che in realtà diceva, diceva, ma poi si tirava indietro. Si aspettava che assentissi a tale melevolo commento. Al che mi avrebbe detto: “E, tu?!” A quel punto avrei dovuto invitarla a casa e scoparla. Invece, continuai a guardarla gelido senza alcun commento e con aria da dire: “Saranno ben fatti suoi...” Infatti, non avendo ricevuto la risposta si aspettava, lei arrossi. Ed io me ne andai. Ah, poi c’era pure la cugina della capufficio, un’altra sikelica che era, guarda caso, nello stesso ufficio della cugina capetta e sempre ansiosa si aderire a tutte le richieste ed offerte della direzione. Cercavano una volontaria per qualche lavoro, ecco che lei si faceva avanti, anche se poi magari la criticavano perché non rendeva abbastanza, oppure doveva sempra chiedere all’uno od all’altro come fare le pratiche. Nel rapporto con la cugina capa, lei era la troia della famiglia. Isa, la santa. Lei, la troia. Restata incinta alla quinta superiore, s’era sposata nel periodo degli esami di maturità. Poi il marito l’aveva lasciata, preferendo scopare in giro anziché con la novella moglie. Ansiosa col figlio, ormai un ragazzo grandino quando io ero capitato lì, s’era dunque da tempo sistemata nello stesso istituto pubblico della cugina e, la sera, andava in giro con qualche amica del tipo suo a rimorchiare cazzo, ostentando tettone e culone. Mi ronzava attorno... ...mi disse che avrebbe voluto divenissimo intimi. Un giorno glielo dissi che non sarebbe successo mai. Tra l’altro oscillava sempre tra l’amichevole e l’isterico. Chessò, urlava di spavento e poi mi chiamava perché aveva visto una cosa strana sul davanzale. Quando io vedevo che cosa fosse, un topo morto, e lo spingevo col piede perché potesse vederlo anche lei se credeva, lei se ne sbottava isterica che io ero uno faceva sempre i dispetti. Cose senza senso, se ci si limitava all’espetto logico dei eventi e di ciò che lei diceva. Appunto leccava, e magari si faceva occasionalmente montare dal direttore che era piuttosto indispettito con me, per cui doveva dire, in modo che tutti la sentissero, che io sarei stato uno “che faceva i dispetti”. E così via.

Dunque, Rosaria e Maria all’isteria perché, avendo io eliminato ogni arretrato delle succulente pensioni speciali, non potevano più fare i loro traffici con utenti ed altri. Il direttore cercava di creare tragedie con le due e con tutti. E si sa quanto pidocchi e pidocchie siano sensibili a qualunque discorso fatto da chi abbia una qualunque autorità formale. La capufficio, che non firmava le pratiche sperando di bloccarmi il lavoro, e per avere poi lei, nel suo ufficio, la processione degli utenti che s’andavano a lamentare ed a raccomandare per avere il dovuto, cosa che io avevo comunque rimosso mettendo tutto in pagamento senza la firma della capufficio. Infatti, ora che ben ricordo, Isa non venne mai da me a sollecitare per chiccessia. Facevo tutto subito. Semmai io accompagnavo qualche utente da lei [era la stanza attaccata alla “mia”], ben prevenendoli (dicendo il vero, non prevenzioni pretestuose), quando erano cose non dipendevano da me e nessun avrebbe mai risolto si fossero limitati ad aspettare fiduciosi.

Tra l’altro, sia il direttore che la capufficio avevano fatto controllare da Rosaria e Maria le pensioni che avevo fatto, cosa che loro fecero vistosamene senza che io facessi alcun commento. Ma non avevano proprio trovato nulla su cui attaccarsi. Di tanto in tanto, chiedevano “spiegazioni” a me sull’una o l’altra cosa, con voce alterata. Avevo poi sempre ragione io. Tra l’altro, da buone fannullone occupatissime coi fatti loro, se le dimenticavano dappertutto. Di qualcuna persero dei pezzi. Poi si provarono a menarla a me... Ma andò loro male. Si ridussero a convocare gli utenti e farsi riportare da essi la documentazione loro avevano perso chissà dove. Visto il clima, ad ogni buon conto, lo raccontai a tutti che perdevano la documentazione presentata dagli utenti.

Rosaria e Maria avevano così infine concordato col direttore una lettera in cui annunciavano formalmente a lui che loro rifiutavano la situazione che s’era creata, cioé la mia fattiva presenza lì, e dunque si autosospendevano dal lavoro delle pensioni speciali. Il direttore le mise a fare altro, o forse nulla. Poi scrisse a Roma che io non facevo nulla e fece avviare la procedura di licenziamento. Intanto, nelle riunioni dei sindacalisti, diceva, di tanto in tanto, senza che c’entrasse nulla, che io non facevo nulla. Solo qualche raro sindacalista saltava su chiedendogli di che mai delirasse. A nessun altro ne fregava nulla. Un po’ tutti pensavano alla loro coska e solo alla loro coska.

Non che la procedura di licenziamento sia così semplice. In genere, se riescono, prima creano un precedente con una lunga sospensione senza stipendio. Quando uno rientra, se non è del tutto annientato, e se trova lo stesso od altro direttore maldisposto, e se non si mette sotto la protezione di qualche mafia, ecco che hanno creato le condizioni per un licenziamento con infamia.

Nell’ufficio di cui Isa era capufficio, c’era una sindacalista, la sindacalista democristiana del luogo. Era separata dal marito. S’era fatta montare da un ex-usciere anzianotto che era il segretario del sindacato democristiano del luogo. Quando costui era andato in pensione, la segretaria sindacale era divenuta lei. Aveva un lavoro, li alle pensioni, di tutto riposo. Usava tutti i permessi sindacali, che altrimenti non avrebbe saputo come usare, per andare al mercato a far la spesa ed altro. Infatti, prima d’andarvi faceva il giro dell’ufficio per chiede alle altre femmine se avessero bisogno di qualcosa. Insomma, era ben inserita nell’ambiente dell’ufficio pensioni. Non mi chiese mai nulla. Mai intervenne in mio favore e contro la mafia del luogo. Come avrebbe potuto?! Lei ne era del tutto organica e ne era uno dei bracci sindacali.

Avviata la procedure di punizione-licenziamento, perché “non lavoravo”, mentre in realtà avevo aggiornato tutto il lavoro e reso inutili le due corrotte che erano così restate senza l’oggetto della loro corruzione, arrivò un ispettore dalla capitale. Un essere grasso e disgustoso che mi chiamò tanto per vedere che faccia avessi e che mi disse che alla fine della sua investigazione mi avrebbe chiamato per chiedermi una dichiarazione. Probabilmente m’avrebbe detto le accuse e m’avrebbe chiesto ch’avessi da dire.

L’inchiesta che fece fu piuttosto strana. In condizioni normali, in quegli ambienti, interrogano un po’ tutti, a cominciare dai sindacalisti. Ma lì il direttore aveva paura che, se avesse interrogato i sindacalisti, qualcuno, e poi magari tutti, lo avrebbero detto che non era vero non lavorassi. Semmai era successo il contrario visto che, lì alle pensioni speciali, avevo aggiornato tutto. Di certo interrogò il capo reparto, un omone intelligente e viscido. Cianko, d’origini sikeliche, d’area sindacal-sinistra. Costui era alla vigilia di un concorso per divenire dirigente. Il direttore ed il suo network mafioso-sindacal-sinistro gli dissero chiaramente che o lui dichiarava per iscritto per io non facevo nulla oppure lui non avrebbe passato il concorso, che come tutti i concorsi di quegli ambienti dipendeva da mafie sindacali e para-sindacali. Lui dichiarò il falso su di me, con dichiarazione scrisse e sottoscrisse, e passò il concorso come previsto divenendo così dirigente. Lo stesso ispettore dalla capitale se n’andò via come un ladro. Aveva detto che m’avrebbe chiamato a fine ispezione. Non mi chiamò. Gli fu detto che doveva essere un’ispezione per liquidarmi. La fece come gli era stato ordinato dal network mafioso-sindacal-sinistro lì a Tauronia e nella capitale. E nella capitale fu avviata la procedura per un provvedimento punitivo, una lunga sospesione.

Tramite una sindacalista onesta del luogo, un ragazza sikelica, che, il giorno della seduta-processo, volò nella capitale e andò alla seduta-processo col suo capo sindacale, un liberale che risiedeva nella capitale e che era negli organi d’amministrazione di quell’istituto, la procedura fu bloccata.

Meglio comunque chiedere l’elemosina nelle stazioni che lavorare con tale feccia ed in tali condizioni. Mi dimisi io.

Le due si ripresero il “loro” ufficio. Si ricrearono il loro arretrato. E con la piena soddisfazione e cooperazione della capufficio e della direzione, si ricrearono la loro rete di clienti che devono andare da loro a supplicare il dovuto ...quando lor “signorie” ritengono di lavorare.

In Mediterranea funziona tutto così. Non a caso, sprofonda ogni giorno di più.