mashal-034. Kavkaz, 1992..95
by Georg Moshe Rukacs
Non sarei mai dovuto andare a Trieste eppure alla fine toccò a me. Al dipartimento di orientalistica c’era lei.
Appariva ancor più giovane di quanto non fosse. Le dita affusolate senza anelli. Un corpo più che perfetto. Il velo semitico che non la celava, bianchissima. Non ascoltai una parola di ciò che disse. Ero troppo preso dall’osservarla. Lei se ne accorse e fu attraversata da un rossore impercettibile, delicato come un brivido senza sussulto esteriore.
Quando gli altri se ne andarono mi presentai. Lei mi disse il suo nome senza civetterie né sorrisi ammalianti, in modo piano e tranquillo. Le dissi soltanto, dandole del Lei, arrossendo leggermente: “Vorrei sposarla”. Lei mi guardo negli occhi, mi scrutò, e tranquillamente, senza proferire parola, se ne andò.
Il giorno dopo, nel corridoio esterno, ampio, dell'ex-convento, io mi diressi verso di lei. Mi disse soltanto:
- “Perché?”.
Ed io:
- “Perché non può essere altrimenti.”
- “Io sono di famiglia karaim del Caucaso.”
- “Anch’io. Son diventato caraita appena ti ho vista.”
Non so come fece, ma una settimana dopo eravamo sposati, seppur lì, a Trieste, da un hakham chissà come comparso. Dopo qualche settimana in Croazia, partimmo per il Caucaso dove dovevamo occuparci di questioni della sua famiglia, un clan guerriero. Lei si muoveva tra i mille dialetti della zona come si fosse trattato di sfumature di una stessa lingua. Io dovevo occuparmi dell’altra parte de lavoro.
La ‘casa’ era una combinazione tra un castello ed un forte. Solidissima. In parte costruita, in parte scavata. Antico e moderno. Architettura locale ed edilizia contemporanea, fuse come casualmente, a strati o affiancate. Internamente considerevolmente più vasta di quanto potesse apparire dall’esterno. Su un rilievo ed attorniato da altri ancora più alti. Là, in terra caucasica, per quanto in alto si sia, c’è quasi sempre qualcosa, oltre, più su. La difesa era soprattutto nella difficoltà di accesso, ed ancor più nella vastità dei territori e in una atavica abitudine alla vigilanza che non permetteva di arrivare inosservati, non segnalati. Per quanto la sicurezza assoluta non esista mai, e la guerra moderna se ne fotta, se vuole, delle difese naturali o tradizionali.
Ci spostavamo come possibile, per non più di qualche centinaio di chilometri, con ogni mezzo, dalle jeep ai muli, a piedi. Eravamo sempre assieme Sarah ed io. Ovunque. Ed era un sogno. Era lei che era magica: qualcosa che non può essere espresso con le parole e che forse non voglio neppure. Anche Milia, che cresceva dentro di lei, era sempre con noi, naturalmente. Esile eppure indistruttibile, non solo non si lamentava mai ma neppure lasciava trasparire sensazioni di disagio.
Il matrimonio delle sue due sorelle, anch'esse molto belle e discretamente aristocratiche, l'una di quindici, l'altra di sedici anni, fu un festeggiamento interminabile, ma funestato da un’incursione di una banda shan. Già maritate, ma ancora al banchetto nuziale, noi aprimmo il fuoco immediatamente con le Uzi, ma intanto i due sposi erano fottuti. Uno da orecchio ad orecchio, l'altro con gola e giugulare trapassati, con precisione e potenza da vecchi Mauser. Risultato: due vedove di un matrimonio non ancora consumato. Passarono a me, secondo la tradizione locale, e vennero da noi, sebbene io evitassi assolutamente. Sarah era tutto e non vedevo perché dovessi approfittare della situazione nonostante certe insistenze che la stessa Sarah fece, come casualmente. Soprattutto non volevo offenderla, o che si creassero distanze che non esistevano e che non dovevano esistere.
Fu lei, quando Milia stava per nascere, che me le mise praticamente nel letto. E così successe, ed altre due creature furono presto in arrivo, con grande felicità della famiglia, che prima era apparsa come offesa per queste due giovanissime vedove bianche che restavano tali. Intense e poi discretissime. E Sarah presente e vicina come sempre, senza le ombre che avevo temuto. Io ero suo, ma c’erano, talvolta, anche le altre due. Forse un modo per dirmi: tu ora appartieni a questa terra.
L'attacco degli shan aprì un lungo periodo di rappresaglie. Loro si fecero vivi nuovamente lì, nel cuore del clan, come in altri punti del territorio. Noi individuammo e liquidammo alcune loro basi mobili e tutti i loro villaggi che fu possibile trovare. Alla fine, probabilmente, decisero di concentrare i loro sforzi altrove e di trasferirsi, se ne erano restati. Ed il pericolo cessò. Sebbene in terre caucasiche nulla cessi mai veramente.
Fu immediatamente dopo la terza nascita da Sarah che eravamo in pianura per consolidare certi interessi del territorio del clan minacciati da piccole bande di indipendenti, molto mobili, e molto noiose e dannose. Sarah era su un’altra jeep quando fu centrata da un RPG. Volarono tutte e due (sia lei che la jeep) per aria e lei era abbastanza distante quando la jeep bruciò con un tuono, ma non c’era egualmente più nulla da fare. Sopravvisse e fu cosciente abbastanza per farmi promettere di andarmene di là, per sempre, e solo.
Nel villaggio da cui era partito il razzo, trovammo l’RPG con le tracce del suo uso recente. Nessuno sapeva nulla e così si applicò la regola del ‘nessun colpevole, tutti colpevoli’. Le fiamme, le esplosioni e le raffiche di kala non potevano farla tornare in vita. Suo padre voleva darmi un acconto di centomila dollari per il lavoro fatto. Ne presi duemila come liquidazione totale, per pagarmi l'aereo fino a Zurigo. Sconfinai nelle Russie. Lasciai dietro di me i sette bimbi. E me ne andai col volto di lei negli occhi. Discreta, tenera, sensuale, forte, sensibilissima, sorridente, meravigliosa. Continuavo a sentirla lì, con me, che mi riempiva il petto ed il cuore, e che era tutti i miei pensieri.
Quando le mie ceneri saranno disperse al vento sarà là che voleranno.