sabato 19 novembre 2011

mashal-033. Treni Senza Voltarsi

mashal-033. Treni Senza Voltarsi  
by Georg Moshe Rukacs

Me ne andai di mattino presto, senza voltarmi.

Credo ci siano delle cose che non cambieranno mai. Che non siano mai cambiate. Che erano così mille anni fa. E che saranno così tra mille anni. E ci sono delle cose che, seppur frutti della civiltà, appaiono come sempre esistite e che sempre esisteranno.

Un acquazzone pesante ed intenso in una stazione di montagna, in agosto. Che rompe il caldo intenso, eccessivo, fastidioso. Che rende scura, buia, la sala d’aspetto. Che crepita sulla tettoia metallica, sulle rotaie, sulle traversine di legno, sul granito, sulla ghiaia, sulle pietre. Con spruzzi leggeri e friabili che si frangono nell'aria e ti sfiorano impalpabili. Che cancella il sole nemico. Che oscura la vista. Che crea un presente, un territorio. Un territorio attorno alla mia estraneità.

Poi il treno arriva. Ci salgo. Mi siedo. Mi trasporta. Attraverso le gocce che punteggiano i finestrini, vedo scorrere verde, muri grigi, case e poi ancora verde. Che non mi appartengono. E neppure il treno che scorre, scivola, tra le cose. Si ferma. Riparte. Riscivola. Più a valle l’acquazzone non è ancora arrivato. O non arriverà mai. Voci non so di chi, non so di cosa. No, le gocce arrivano. Prima nulla. Poi inclinate nell'aria. Non vedo se arrivino a terra. Dovranno ben arrivarvi. Ma non lo vedo, né mi interessa. Schioccano appena sulle pareti del treno. Ora non più.

Le stazioni non sono tutte uguali. Quelle impossibili, dismesse, monumenti di nulla nel nulla. Quelle normali con gente che sale e che scende come nella via affollata di una cittadina. Ma preferisco quelle come dove sono salito io, dopo un’ampia curva della ferrovia, silenziosissima e dimessa, più un posto di guardia che un centro di traffico e di traffici.

Il cambio è con un treno più vecchio e che attraversa zone più rudi, con più vegetazione e più deserte. È pressoché in pianura ma si ricrea la dimensione della montagna. Sarà la vegetazione fitta che costeggia la ferrovia e che impedisce la vista. Un lampo sgretola il cielo e cade con un tonfo lontano. La pioggia che ritorna. Una stazione chiusa, che sembra, ed è, come fermata nel tempo e nei tempi, testimonia di un’epoca passata ma ancora presente, presente nelle cose.

Una stazione chiusa, ma non abbandonata, resta come un monito, un’attesa. La pioggia batte come sulle pareti di una latta, di uno scatolone. Queste gocce che percorrono a reticolo i finestrini mi ricordano una voglia, un bisogno, di piangere. E l’incapacità di farlo. Ma non è possibile tenersi tutta la vita le lacrime dentro. ...Non è un gran problema. Quando vogliono fluiscono.