mercoledì 7 agosto 2013

mashal-072.
Spazio Roma, in salsa spagnola

mashal-072. Spazio Roma, in salsa spagnola

by Georg Moshe Rukacs


Rio de Janeiro. Brasile. Un altro pianeta. ...Non del tutto...

Leggo il solito annuncio di ricerca di personale. Anche questa volta è un ristorante. Scrivo l’11 luglio 2013, una email, nel primo pomeriggio. È a un quindici minuti, camminando, da dove abito.

Mi rispondono dopo più di una settimana, venerdì 19/07/2013, alle 9:16, dicendomi di andare al mezzanino, o al piano superiore, di Rua do Ouvidor 12, il giorno stesso, tra le 08:00 e le 11:00 o tra le 15:00 e le 18:00. Mi dicono di chiedere del manager Osmar. La email la firma Danielle. 

Stavo uscendo. La email la leggo pochi minuti prima. Sono le 10:00. Mi dico che è meglio afferrare l’occasione subito. Per cui, vado immediatamente lì, invece che dove stavo andando. Differentemente avrei dovuto andare lì, al ristorante, nel pomeriggio.

Nella Rua do Ouvidor 12, c’è un portoncino chiuso, affianco ad un ristorante con le saracinesche sollevate ma la porta semichiusa, o semiaperta. Suono e ri-suono. Nessuno apre. Scoprirò poi che il campanello non funziona, probabilmente da molto, e nessuno si preoccupa di ripararlo o di farlo riparare.

Mi guardo attorno. Compare un signore anziano, che poi scoprirò essere Arturo, uno dei proprietari, uno spagnolo, di Madrid dice lui. Chiedo se il numero 12 sia quel portoncino chiuso, che è per un colloquio di lavoro. Mi dice che è lì da lui.

Poi scopro che non è vero, anche se dovrebbe essere la stessa azienda, più o meno. Ma nel mezzanino, che non è un mezzanino, bensì un primo o secondo piano, cui si accede da una scalona diretta interna, nessuno risponde essendo evidentemente rotto il campanello. Mentre sotto, al pian terreno, Arturo mi accalappia. 

Mi dice che sono tre soci, lui, un italiano di Padova ed una brasiliana. L’italiano deve essere fuggito da Arturo. Quando Arturo gli parla, al telefono, di investimenti da fare, gli risponde che l’Italia è in crisi e lui non ha soldi. Del resto, dovrebbe essere Arturo a curare la manutenzione e spendere per riparazioni e necessità, cosa che non sembra fare, tirando solo a spendere meno possibile a scapito della funzionalità, dunque dei ricavi e dei profitti.

Ma nella visione brasileira dei piccoli proprietari, lì devono avere pure contagiato uno spagnolo, Arturo, tirano solo a risparmiare in modo del tutto miopico, a scapito appunto della funzionalità, del soddisfacimento del cliente, dunque a scapito di più clienti e più profitti. È la logica dei pochi [soldi] e subito. Per cui sembrano di più.

Si illudono di fare più soldi, mentre ne fanno meno. Ma sono soddisfatti perché delinquono, rubano, al cliente come ai dipendenti. Il brasileiro si auto-compiace della propria mentalità delinquenziale e dei propri comportamenti delinquenziali.

Lì, in Rua do Ouvidor 12, a Spazio Roma, è una struttura da ristorante di lusso ridotto a locale dove le persone mangiano a prezzo fisso, volendo, e, in parte, servendosi da soli come in un ristorante a peso. La socia, brasiliana, è una ficona sciantosa che sembra comparire solo per mangiare ed incassare.

Nel ristorante lavora pure la figlia di Arturo, una con l’aria gelida che si occupa della cassa. Che fosse la moglie o l’amica del padovano poi ‘fuggito’?  

Qualcosa deve essere successo, perché il sito web spazioroma.com.br, recente, mostra cannelloni, pasta al forno, fettuccine, gnocchi. Parla pure di pizze e mille altre cose. Ma, nel ristorante odierno, non ve n’è traccia. Eppure lo hanno un forno da pizza.

Il sopra-negozio, che poi sarebbe un vasto primo o secondo piano, è un’area feste o, forse, occasionalmente o meno, locale notturno. In affetti, ha la struttura di un bar.

Ha personale del tutto separato. Ma non ha cucina. Ha solo, da un lato, nella parte più interna, la più distante dalle finestre e dal balcone, come una piccola area, forse con lavandino, coperta da delle paratie mobili che la fanno sembrare uno studio medico misteriosamente ricavato dentro un grande salone feste e ristorante. E, poi, un grande banco bar. Oltre a ciò, è tutto tavoli, i soliti tavoli, come al pian terreno, disposti in modo militaresco e senza nessuna attenzione alla psicologia del consumatore che gradisce altre soluzioni.

Tra l’altro, pure il sontuoso pian terreno, troppo alto visto che volumineggia per due piani, non segue alcuna psicologia del consumatore che gradisce, sembrerebbe, sentirsi protetto, dunque con soffitti bassi o che sembrino bassi, oltre ad altre soluzioni che i tavoli disposti come in una caserma. Al pian terreno avrebbero potuto ricavare due piani, dunque aumentare la ricettività e, volendo, pure la varietà dei servizi offerti. Certo, se di proprietà avrebbero potuto ristrutturarlo, anche in economia, con tubature ed assi di legno e simili che possono essere relativamente economici, e funzionali ed eleganti. Se non è di proprietà, devono pagare un occhio della testa di fitto. Ma anche ciò non esclude ristrutturazioni semplici per aumentare la ricettività, gli incassi ed i profitti.

Certo che se tutto viene fatto colla logica di Arturo che la mattina compra lo stretto necessario per la cucina della giornata e che economizza, spilorceggia più che agire di sana economia, su tutto, calcolando ogni momento i costi. Ma non con logica economica. Economizzare, ed allocare efficientemente, non è la stessa cosa che fregare il cliente, dunque pure sé stessi, come lì fanno!

Colla logica del fregare il cliente, si guadagna dal cliente di passaggio. Colla logica di soddisfare il cliente, si guadagnano clienti che portano soldi e soldi nel tempo ed in continuazione. Ma il brasiliano non può vivere senza fregare. Neppure Arturo, evidentemente. 

Ora un tizio, ora un altro, evidentemente dello spazio al piano superiore, vengono nella cucina del pian terreno, talvolta la mattina presto, talvolta nel tardo pomeriggio, a preparare un ragù o qualche altra cosa simile. Nulla che possa far pensare a nulla di elaborato. Al massimo danno qualche limitato complemento a bibite dell’area bar.

Per cui, resta il ‘mistero’ di questo ristorante di grande cucina italiana ed internazionale, conclamato sul sito web ma ora ridotto, pur con grandi spazi clienti, al piccolo cabotaggio e con un Arturo che compra giorno per giorno, al mercato ed al supermercato, lo stretto indispensabile. Già a partire da quelle cose, si capisce che non hanno idea, non ha idea, Arturo, di come debba funzionare un ristorante. Non che non faccia bene a fare, lui, nel contempo il cuoco principale ed il manager. È  che non sa come si faccia il manager, neppure quando sta in cucina, alcune ore al giorno. Dunque neppure sa fare il cuoco-manager, manager della cucina. 

La cucina sarebbe anche grande, pur non grandissima. Rarità per il Brasile, è perfino dotata di una camera frigorifera, una stanzetta refrigerata, una via di mezzo tra un frigo ed un freezer, come temperatura. Non è comunque sfruttata appieno, anzi lo è solo poco poco, perché il proprietario, Arturo, è un tirchio che compra giorno per giorno, in genere.

Senonché l’aspirazione della cucina, pur essendoci, non aspira molto, contrariamente agli stessi standard locali di Rio di Janeiro. Deve essere per non consumare elettricità. La cucina è infatti piuttosto calda e non ventilata.

In tutto, vi sono tre coltelli da cucina. Non vi sono coltelli di piccole dimensioni. Mistero come pelino l’aglio. Io mi procuravo un coltello appuntito di quelli dei tavoli.

Anche il pentolame e padellame è insufficiente. Non vi sono contenitori di servizio per cui deve essere tutto arruffato e fatto al volo. Chessò, per fare una frittata o torta di patate, cola le uova sbattute dove sta cucinando patate e cipolle. O si mescola tutto al volo od è ...una frittata, un pasticcio.  

Nonostante l’abbondanza di fritture, a getto continuo, non vi è una friggitoria. In genere, i ristoranti di Rio hanno ameno una friggitrice grande doppia, che si usa dalle patate fritte, al pastel (dei ravioloni fritti), al pollo fritto etc. Avevano una friggitrice piccola singola, di quelle da tavolo o da bancone, ma è rotta e, sebbene costi poco, non è stata rimpiazzata. Viene fritto tutto in una padella, in cui è facile bruciacchiare le fritture oppure bruciare poi l’olio. Per risparmiare in giornata, in realtà, alla fin fine, spendono di più che con una friggitrice doppia di quelle che si caricano con una trentina di litri d’olio ma dove l’olio non si brucia dato che la temperatura massima è compatibile con una lunga utilizzazione dello stesso.

A parte che ne guadagnerebbero pure di velocità, quando si cumulino ordini di pastel e patate fritte, o pure altre cose. Ma è tutto organizzato, anzi disorganizzato, sugli ordini del momento. Oltre alle portate standard per il buffet, che si preparano prima dell’afflusso dei clienti per il pranzo, ma che si raffreddano dato che è un buffet senza sistemi termici per fornire cibo caldo, per cui anche se di tanto in tanto infornano qualcosa poi al massimo è tiepido se la temperatura esterna è rovente, non vi sono sistemi di previsione. Non prevedono nulla. Arruffano tutto sul momento, con inevitabili dilazioni, clienti che se vanno, portate mal cucinate.

Chessò, nessuno pensa di preparare qualche decina di pastel pronti per essere fritti, magari conservati nella camera frigorifera. Aspettano l’ordine. Friggerli prende meno di un minuto. Scartarli dalla pellicola protettiva egualmente è rapido. Meno rapido è prepararli quando si susseguano richieste di dieci o dodici. Troppo difficile, per loro e la loro disorganizzazione, prepararne un centinaio, od anche di più, da tenere nella camera frigorifera. Oppure comprare quelli già confezionati. Per cui si arriva, inevitabilmente, a momenti che i clienti premono e, fra prepararli ed avere la padella non occupata da altre cose, passa anche molto tempo. Io tentavo di prepararli in anticipo, ma mi chiamavano per altre cose. È tutto raffazzonato sul momento. Arturo urla, indisponente, ordini sovrapposti e contraddittori, e pure in malo modo. L’evangelico e l’alcolizzato, da lui nevrotizzati, lo imitano.    

La cucina a gas avrebbe 8 fornelli. Senonché almeno un paio non funzionano e non sono stati riparati.

Arturo, nel colloquio di lavoro, mi farfuglia di soldi, ma senza dire nulla di orari. Mi dice che paga tutte le settimane. Questo poi non non accadrà con me, visto che la settimana finisce il sabato o la domenica, lì sembrerebbe il sabato. Mi chiede quanto io paghi di stanza, concludendo che mi resterà qualcosa per me dallo stipendio. La teoria e pratica del salario di sussistenza. Mi dice che è una grande opportunità, l’opportunità della mia vita, lavorare con un grande cuoco come lui. Chi promette troppo, ma non è preciso, poi non ti dà nulla, neppure l’ordinario. Anzi, ti ruba.

Arturo lavora in cucina, come primo cuoco, nelle ore di punta. Gli altri due cuochi, due quarantenni probabilmente, sono l’alcolizzato e l’evangelico. Ogni giorno, Arturo urla sia con l’uno che con l’altro che gli rispondono urlando a loro volta. Spesso sono pure urla di un’estrema violenza reciproca.  

Soprattutto l’alcolizzato, pur ostentando grande gentilezza formale, è del tutto non cooperativo. Se gli si chiede anche solo dove sia il pelapatate risponde ultimativo di non fargli tali domande. Così su tutto. Anche il proprietario, ad ogni domanda, dice: “Lo devi sapere!” Uno, magari, lo sa, ma non nel modo gradito dal ristorante, cioè ad Arturo. Si verificherà.

Il primo giorno è la curiosità. Già il secondo, ho l’impulso di cambiarmi e di andarmene. Idem il terzo. Con forza, il quarto. Tuttavia resto fino all’uscita, del tutto indefinita. L’uscita, per me, è, di fatto, quando chiude il ristorante, più precisamente la cucina del ristorante, ristorante che, a volte, continua a funzionare, magari all’esterno, in piazza, come bar, come vendita lattine e bottiglie quando vi siano feste o festeggiamenti per strada, con musiche, balli, chiacchiere.

Il primo giorno, venerdì 19/07/2013, inizio a lavorare verso le 11. Un poco prima dell’ora di  piena, per il pranzo, Arturo mi dà una sbobba che lui si vanta non gli sia costata nulla. Sono avanzi del giorni prima cucinati come a minestrone, un minestrone scotto, che dà come pasto ai dipendenti.

Arturo non dice nulla sull’orario di uscita. Finisco quando il ristorante chiude. Vado via alle 22:40. 11 ore e 40 minuti.

Arturo e l’alcolizzato sembrano i ladri di Pisa che litigano di giorno e vanno a rubare assieme la notte. Più urlano, e pesantemente, più, poi, la sera e la notte, li si vedono chiacchierare assieme affabilmente.

La sera del venerdì, quando sto andando via, chiedo ad Arturo a che ora devo andare il giorno dopo. Mi dice alle 8:30. Tutti mi dicono che fino alle 9:30 è tutto chiuso. Grande gentilezza, mi fa dare 5 reais dalla cassiera, la figlia, come rimborso bus anche se sa che si va a piedi da dove abito fino a lì. Saranno gli unici soldi che vedo. L’alcolizzato abita di fianco a dove abito io, nell’altro ostello. Ovviamente, non riceve nulla. Gli dà 25 reais al giorno e poi lo paga a percentuale. Deve incassare tra i 50 e gli 80 reais al giorno, sembrerebbe. Sta lì da mane a notte, anche se con lunghi intervalli per fumare, o non si capisce bene per fare cosa (a volte fa pure il cameriere, con la gerente, una che di tanto in tanto compare, che dice che lui si comporta come un folle e lui la ricambia dicendo che la gerente è del tutto inetta), ed a volte sparendo anche per ore. Dice che guadagna bene. Ma lo spende mangiando tutti i giorni in altro ristorante, sembra in Lapa, per 10 reais dice lui, ed in alcolici e sigarette. Un tipo colle mani bucate. Anche l’evangelico ha una paga a percentuale perché, dopo la piena del pranzo, passa ore a fare i conti di quello che ha prodotto.

Quel venerdì, mentre stiamo uscendo, l’alcolizzato urla con Arturo che gli deve dare di più perché ha fatto il conto degli incassi e la sua percentuale è più di quello che ha ricevuto. Arturo non risponde, e non gli dà nulla, sul momento, di quello lui reclama. Poi, per strada, gli chiedo se lì siano precisi a pagare. Mi dice che con lui sono sempre stati precisi. Chissà di che urlava, allora. Deve essere il costume del luogo. Urlare sempre e su tutto.

L’alcolizzato mi dice pure che il giorno dopo mi farà vedere le preparazioni di apertura, lo standard che lui fa tutti i giorni per il buffet, patate, pesce etc. che dispone su vassoi e poi inforna per alcuni minuti per la parte non già cucinata completamente. Non mi farà vedere nulla. Sono tutti gelosi di quelle quattro cazzate spetta a loro di fare. 

Sabato, inizio alle 9:30. Quando arriva Arturo, pretende che io faccia la sfoglia per pizza bianca e pizzette. In realtà, vuole solo una sfoglia sottile per fare come delle tartine croccanti.

Solita ‘logica’ non cooperativa. Non mi danno il lievito. Mi danno solo del lievito chimico per dolci quando ho già fatto l’impasto, acqua, farina, un poco di olio, sale. Prima avevano detto che non ne avevano. Lo aggiungo in qualche modo ma il tutto non lievita. Uso lo stesso l’impasto. Non hanno il mattarello. Ma usando un bastone che usano per battere il coltello per fare a pezzi il pollo, chi non usi il coltello come una mannaia, faccio una bella sfoglia fina fina e, miracolo, senza buchi.

Lui urla di fare la sfoglia. Gli altri urlano di altre impellenze. Poi ci sono da fare i soliti pastel. Pure altre cose, incluso lavare piatti e stoviglie.

Gli altri non si preoccupano. Quando piatti e vassoi puliti sono finiti, usano quelli sporchi dai clienti precedenti, anche senza neppure passare un panno. Ah, un po’ dappertutto fanno a quel modo, a Rio de Janeiro. Non hanno un minimo di etica, né di igiene. Quando hanno grandi quantità di piatti, gli altri (non io) fanno un lavaggio unico, senza prelavaggio. Restano unti e sporchi. Quando li asciugano, li puliscono pure. Se alcuni sono proprio sporchi sporchi, vengono ridati in cucina per rilavarli. Ma anche quelli ‘puliti’ restano inevitabilmente unti. Economizzano... Una bella porcheria.   

L’alcolizzato, nel momento delle pulizie di fine giornata, sposta tutte le cose del suo e di altri spazi presso il lavandino dove sono io ed esclama:
- “Hai visto che in cinque minuti ho finito mentre tu hai ancora tutto da fare”
- “Certo scarichi le tue cose a me da lavarle... Io ho qui tutte le cose tue, ...che dici che hai finito in cinque minuti...”

Troppo difficile. Mi guarda ebete. Dubito riesca a connettere.

Esco alle 23:10. 13 ore e 40 minuti. Pasto, misero, di cinque-dieci minuti prima che inizi la piena del pranzo. Quando esco, fuori vi è grande festa, già da varie ore. Arturo è fuori, vicino ad un freezer usato come frigo con all’interno ghiaccio in via di disfacimento e bottiglie in gran quantità. I tavoli, dall’interno, alcuni anche dallo spazio sopra, sono stati mossi fuori.

Come già il giorno prima, ed i giorni seguenti, mi avevano chiamato per aiutare a portare tavoli dentro, fuori, sopra, sotto. Idem casse di bottiglie. Culturismo per ristoranti.

Anche l’alcolizzato esce quando esco io. Prima mi aveva detto che il sabato era il giorno di paga. Gli avevo chiesto paga per chi. Mi aveva risposto: “Per tutti.” Mentre stavo uscendo, avevo salutato, come sempre, tanto per farmi vedere, la cassiera, la figlia. Per cui chiedo all’alcolizzato, quando siamo fuori, perché mi abbia detto che era il giorno di paga, se non hanno pagato. Mi dice che lui va da Arturo, che sta seduto in mezzo alle bibite ed alle folle beventi, e chiacchieranti o danzanti, per farsi pagare. Gli dico casual che a me non ha detto nulla, che sono più di 13 ore e mezza di fila, che è una pazzia, per cui Arturo, per me, può pure andare a farsi fottere.

Mentre me ne vado via, lui corre da Arturo e gli dice che gli ho detto una cosa come se magari mi fossi rotto i coglioni e sparissi. Arturo gli dice di chiamarmi. Io sono già ad una cinquantina di metri, forse più, che lui mi raggiunge correndo dicendomi che Arturo mi ha chiamato.

Con lui, vado da Arturo che è stravaccato su una sedia. In realtà, non ha nulla da dirmi. Gli dico che se mi ha chiamato... Lui resta come inebetito. Gli chiedo del giorno dopo. Lui mi dice che posso anche andare 1ì alle dieci. Io guardo l’orologio. Sono le 23:10. Gli dico:
- “Ah la legge delle 11 ore. OK, alle 10:10”.
In Brasile, è previsto un intervallo di almeno 11 ore tra un turno di lavoro ed il successivo. E me ne vado.

Il giorno dopo, domenica 21 luglio 2013, sono lì alle 10:10, anzi i soliti almeno cinque minuti prima. Solito trantran delirante. Solite urla tra Arturo e gli altri. Poi, lui vuole che gli prepari la solita sfoglia per pizze, pizze un po’ sui generis dato che lui colloca sulle stesse solo un po’ d’aglio, sale, basilico, perché formaggi ed altro costano troppo, dice. 

Quando Arturo arriva con la spesa del giorno, come già i giorni precedenti, idem il successivo, mi dice di andare a scaricare la macchina, col suo solito: “Rapido! Rapido!”, cui io sempre rispondo: “Rapidissimo!”. Mentre la scarico, raggruppandomi i sacchetti che tengo colle dita, Arturo si mette ad urlare che la spesa si scarica più facilmente caricando tutto su delle cassette. A parte che non è detto che sia più funzionale, a fare quel lavoro da soli, ...non ci sono cassette! Glielo dico che non ci sono cassette. Scantona.

Finita l’ondata del pranzo, se ne vanno tutti. Arturo per i cazzi suoi. L’alcolizzato a fumare ed a fare chissà che altre sue cose fuori dalla vista mia. L’evangelico passa ore a fare i conti per la sua percentuale. Poi sparisce probabilmente a farsi la doccia all’ultimo piano. Scaricano tutte le pulizie di chiusura su di me. Quando esco, l’alcolizzato è seduto con Arturo a ciapettare. I ladri di Pisa. Ristorante e strada ormai deserti. Mi dice di restare lì a chiacchierare con loro, che la vita reale è lì.

Arturo e lui, un lungo tavolo, buio e deserto attorno. Atmosfera desolata. Che “vita reale”! Mi allunga una sedia.
- “Hai fretta?”
- “Certo, ho molta fretta!”

Resto in piedi e solo per chiedere a che ora andare il giorno dopo. Arturo dice di andare, il giorno dopo, alle 8:00. Lo guardo strabuzzando gli occhi. Alla fine, si concorda, con l’alcolizzato, che andiamo lì alle 9:00, anche se fino alle 9:30 ed oltre è tutto chiuso. È il giorno di riposo pure di quella che di solito apre alle 9:30. Ma l’alcolizzato dice che si fa aprire da quelli del piano superiore, dell’altro spazio ristorante, staccato seppur della stessa azienda. OK, alle nove. Sono le 18:10. Altre 8 ore che, essendo domenicali, festive, dovrebbero essere pagate come 16. Ma tanto non vedrò nulla.

Lunedì 22 luglio 2013, io sono lì alle 9:00, anzi i soliti cinque minuti prima. L’alcolizzato se ne arriva alle 9:20. Suona al campanello che, ovviamente, non funziona. Poi, urla a lungo dalla strada finché dal piano superiore non aprono. Si sale su. Poi, per scale interne, si scende giù.

Non vi è nulla da fare. Anzi, lui, l’alcolizzato, il grande esperto della vita del ristorante, è abituato a lavorare, lui, alle sue cose del giorno per cui io sono lì a non avere nulla da fare, ora, in cucina. In realtà, lui è deconcentrato pure relativamente a sé stesso, per cui si muove sconnesso ma senza fare nulla. Lunedì è pure il giorno che l’evangelico è di riposo. L’alcolizzato, al contrario, lavora tutti i giorni. Per cui, dovrebbe essere lui, o lui ed io, a fare il lavoro suo e pure il lavoro dell’altro di riposo. No, si muove lento e non inizia a fare nulla.  

Dato che non c’è la ragazza che di solito apre e che prepara il caffè per sé stessa e per gli altri presenti, l’alcolizzato si va a fare una mezza lattina di coca-cola. Lo guardo. Penso sia una birra. No, è coca-cola e ne passa l’altra metà a me, che me la bevo felice.

Dato che la domenica non passa il camion della spazzatura, ora, lunedì, c’è la spazzatura del sabato e della domenica. La portiamo sulla soglia. Il camion della raccolta non passa. Quando il proprietario arriva comincia ad urlare con l’alcolizzato che la spazzatura non deve stare all’ingresso. La riporto dentro. Essendo da solo, struscio il contenitore sul pavimento che, invero, è di legno ma con la vernice sparita ormai da tempo, per cui non è che si rovini nulla. Arturo urla che rovino la vernice del parquet, vernice che non c’è. Se devo trasportarlo da solo...

L’alcolizzato mi dice di pulire il salone. Non è lavoro dei camerieri? Do una spazzata. Sarebbero da sbattere e rimuovere le tovaglie, rovesciare le sedie sui tavoli e passare un aspirapolvere che, naturalmente, non hanno. Non usa, in Rio de Janeiro. Amano complicarsi la vita. Costa tutto caro, ma non la manodopera. Ramazzo, alla cazzo, la più grossa. Tanto nessuno si preoccupa di nulla. Le tovaglie sono sporche. Ai clienti loro piacerà così... Meglio un tavolaccio rude ma pulito.  

Poi, l’alcolizzato mi dice di pelare le patate. Chiedo dove sia il pelapatate. Urla che non devo chiederglielo. Alias, lui lo sa dove sia ma deve essere un grande segreto per chi sia nuovo della cucina. Comunque lo trovo ed inizio a pelare le patate.       

Pelatele, gli chiedo che si debba fare. Mi dice di tagliarle in quattro. Siccome quella che lui taglia in quattro è piccola, quando sono grandi le taglio in sei. Arturo dirà poi che sono troppo piccole. In realtà, è la dimensione giusta delle patate grandi al forno, per esempio. Anche quelle lesse che usano per guarnire il pesce, se le cuociono poco, se sono grandi non lessano nell’interno. Boh, se non ti dicono per cosa siano... 

Quando ho finito di tagliarle, l’alcolizzato si mette ad urlare e, sceneggiando, lo dice pure al cameriere che nel frattempo è arrivato, che, orrore!, le ho tagliate tutte. Non è che lui mi avesse detto di tagliarne solo un po’...

Non è un gran danno perché, quelle che lui non necessita a pezzi grandi, sono da tagliare come affettate ché le usano per frittate, e torte di uova, patate e cipolle, e cose simili. Per cui, quelle che lui non usa, inizio ad affettarle sottili sottili.  

Quando arriva Arturo, l’alcolizzato è senza l’uniforme, anzi senza l’unico pezzo degli abiti da lavoro che lì diano, una maglietta con righe bianche e blu, una maglietta alla marinara. Il giorno prima, Arturo la aveva vista appesa in un angolo della cucina ed aveva detto che non si poteva lasciarla lì. Dato che l’alcolizzato non era lì, era già pronto ad andarsene via, cioè a starsene fuori a fumare e chiacchierare col proprietario, avendo scaricato la pulizia della cucina tutta su di me, avevo rimosso la maglietta appesa e la avevo messa in un sacchetto che avevo portato al piano sopra, dove si accede con una scala a chioccola dalla cucina, dove si cambiano coloro che non vogliano andare all’ultimo piano, che è pure un po’ pericoloso da raggiungersi con la scala più interna e diretta, che è una scala ripida metallica da cui è facile scivolare.   

Arturo nota subito che l’alcolizzato non ha la maglietta e la cuffia per i capelli. Inizia ad urlargli di andarsene dalla cucina. Lui dice di no, che non se ne va. Arturo continua ad urlare di andarsene subito, di sparire. Quando hanno finito di gridare, gli dico che è tutto in un sacchetto al piano di sopra. Si cambia. Troppa fatica chiedere, per lui...

Finite le sue preparazioni di base di giornata, l’alcolizzato sparisce. Restiamo io ed Arturo mentre arriva una grande quantità di ordini. Arturo ordina cose contraddittorie ed incompatibili. Urla. Urla che, anche se siamo andati presto, non abbiamo fatto nulla. Glielo dico che se l’altro mi ha detto di pulire il salone anziché cominciare subito a lavorare in cucina... Non potevo dirgli che l’altro era arrivato in ritardo e che poi non aveva voglia di fare nulla.

Ma non è neppure quello. È così sempre. L’alcolizzato, o l’alcolizzato e l’evangelico, visto che quest’ultimo è di riposo solo un giorno la settimana, preparano le loro cose per il buffet. Poi è un po’ tutto lasciato all’improvvisazione. Per cui, quando i clienti sono molti diviene un problema, e pure tra urla auto-giustificatorie ed auto-assolutorie (urlano per accusare l’altro o gli altri, quando la colpa di fondo è della disorganizzazione voluta dal padrone, da Arturo, oltre che da loro che gli danno corda isterico-servili), star dietro a tutti gli ordini.

Ho l’impulso di cambiarmi ed andarmene via senza neppure salutare nessuno. Paziento, ai continui insulti di Arturo.

Finiscono le patate da friggere in sacchetti, quelle che si conservano nel freezer. Si devono fare, ma rapidissime, con le patate normali. Gettate, e pure in grandi quantità, in una padella media, cioè piccola per quel lavoro, ne esce una schifezza. Le patate da friggere andrebbero ricavate, ma tagliate calmi e regolarissime, dopo averle squadrate, dopo averle pelate (ma in Canada, alla scuola culinaria, facevano delle ottime patate fritte senza pelarle e senza squadrarle, colla friggitoria standard, ...non in padella!), dalle patate normali. Lì vogliono tutto in fretta e furia. Escono una schifezza dalla padella. Fritte irregolarmente, con Arturo che urla se le mescolo. Se non si muovono, alcune sono bruciate ed altre crude. Mentre la padella è occupata, urla di friggere i pastel. Se c’è solo una padella per friggere... I clienti, intanto, protestano che stanno aspettando troppo e che le portate sono mal cucinate. Alcuni, stufi di aspettare, se ne vanno.

Arturo, ad un certo punto, urla di fare della farofa. Gli chiedo come la voglia. Mi dice che devo saperlo. OK, lì a Rio c’è chi la fa facendo prima un soffritto aglio e pezzetti di pelle di pollo oppure con del ladro o simili. In realtà, la fanno ricchissima, con mille cose, al ristorante dei poveri, quello dove si paga un real a pasto.

Inutile immaginare che lì, a Spazio Roma, con quell’Arturo,possano avere del lardo o che possano usare del bacon. Vado a spellare un paio di polli e poi ne faccio a pezzetti la pelle. La fanno a questo modo istruttori di scuole culinarie pubbliche di Rio de Janeiro. Soffritto con aglio e grasso (la pelle del pollo), e poi farina di mandioca. Intanto lui la ha già fatta gettando delle uova nell’olio e poi gettando la farina di mandioca. Me lo poteva dire che la voleva con base di uova.

- “Hai visto che me la sono fatta da solo?! Come ho fatto presto?!” 
Me lo avesse detto che era l’unico ristorante di Rio de Janeiro dove la facevano con le uova e solo colle uova... prima della solita farina di mandioca. E che era per un solo cliente, non come fanno dappertutto che ne preparano un quantitativo per la giornata od anche per più giorni. 

Poi urla di fare del riso bollito. Preparo dell’aglio, dato che lì a Rio fanno il riso bollito a questo modo. Lo brillano con aglio e olio, e poi lo bollono. Ah, no, lui voleva del riso bollito puro per un solo cliente. Urla senza dire come voglia le cose e senza che uno lo abbia potuto previamente vedere. Mentre tagliuzzo l’aglio, lui se l’è già fatto da solo. Poteva dirmelo che voleva del riso in acqua e per una sola persona...
  
L’alcolizzato è sparito per tutta la giornata. Ritorna quando sto andando via, alle 17:40, altre otto ore e 40 minuti, quando l’orario settimanale di 44 ore dovrebbe implicare 7 ore e 20 minuti al giorno, ma lì nessuno segna gli orari. Non sanno quando le persone arrivino né quando vadano via. Appunto, disorganizzazione a tutti i livelli, da tutti i punti di vista.

Quando esco, vedo Arturo in un bar affianco che guarda, seduto come un barbone, la televisione tra altri clienti di quel locale. Gli chiedo del giorno dopo. Mi dice di andare alle 8:30. Gli dico che è tutto chiuso. Mi dice che mi aprono quelli del piano superiore che sono già li a lavorare. Gli dico OK.

8:30, fino a che ora? Che gliene frega a lui... È tutto indefinito ed alla cazzo.

A casa, che poi sarebbe in quella stanzetta angusta, angustissima, mi dico che il giorno dopo vado alle 10. Tanto lui arriva poi con la spesa e non sa neppure a che ora si sia iniziato.

Poi, mi dico che non ha senso. Cucina afosa. Deliranti furiosi. Incertezza se paghi per le ore fatte, anzi certezza che poi frega pure. Lavorare con l’impulso costante di andarsene sul momento? E perché? Che senso ha?

Mi dico che è meglio perdere quattro giorni e 50 ore (la domenica vale il doppio), anzi un po’ di più perché le ore notturne, ve ne sono un paio, non sono di 60 minuti bensì di 52.5 per legge. Lavo i calzoni usavo per lavorare. Impossibile siano asciutti per la mattina. Mi dimentico pure di sciacquarli dall’ammollo. Lo farò e li stenderò poi il giorno successivo.

No, non ho ripensamenti. Il giorno dopo non vado. Me ne vado di nuovo a mangiare al ristorante dei poveri, il Ristorante Popolare, quello da 1 real.

Martedì passa. Mercoledì 24 luglio 2013, mi inviano una email, alle 14:24, ma quelli della prima email, quelli del piano superiore, dicendo che mi richiamano per un colloquio di lavoro (da farsi con Ana o Osmar), dato che io mai comparii, perché hanno necessità urgente di un cuoco con esperienza in pasta, sfoglie. È scritta sgrammaticata e confusa. Un po’ perché sono brasileiri, un po’ perché glielo ha detto Arturo di ricontattarmi, dato che ero sparito e per vedere se e cosa rispondevo. Non rispondo.

Io non mi faccio più sentire. Neppure lui, Arturo.

Ovviamente sa dove abito perché l’alcolizzato glielo ha detto che abito nell’ostello attaccato al suo. Il mio nome e cognome lo conoscono sia dalla email sia dal fatto che il primo giorno, forse era quella la funzione dei 5 reais “per rientrare in taxi che sei stanco”, la figlia, alla cassa, mi aveva chiesto il mio nome ed io avevo mostrato la mia patente di guida inglese con nome e cognome, che lei avrebbe dovuto avere trascritti sulla ricevuta. 

Beh, non gli sarà sembrato vero, ad Arturo, che uno abbia lavorato lì per quattro giorni (per più di 50 ore da pagargli, ma lui non lo sa non segnandosi nulla) e lui neppure abbia avuto l’incomodo di dargli qualche soldo di salario.