giovedì 21 ottobre 2010

mashal-009. Deportazione

mashal-009. Deportazione

by Georg Moshe Rukacs

In Canada, se chiedi asilo politico od altro all’aeroporto, appena arrivi, innanzitutto ti arrestano, si trattengono il tuo passaporto, emettono un ordine di partenza (che diviene poi ordine di deportazione se non vai dove loro pretendono), ed informano la compagnia aerea con cui sei arrivato che sei stato arrestato “pending completion of immigration proceedings”.

...Originale!

Se invece entri come turista e, poi, chiedi asilo, nulla di tutto ciò. Idem se ti prendono mentre passi illegalmente la frontiera ma sei chessò del centr’America, ...in fuga dagli USA in cui soggiornavi illegalmente. In pratica, ti penalizzano se sei onesto, mentre ti favoriscono se sei disonesto. Naturalmente, se sei un criminale con costosi avvocati che possono inondarli di ricorsi per ogni loro atto, sei ancora più avvantaggiato. Ovviamente, i canadesi, tanto per ammantarsi di aureole che non hanno, raccontano che gli USA sono il paese delle libera delinquenza mentre loro sono quello della legge ed ordine. Loro se lo dicono. Impossibile a credersi. Visto, poi, che non solo organizzano la delinquenza ma la producono pure attraverso le politiche di creazione di stalking gangs per operazioni di terrorismo sociale. Essendo numerosissimi gli emigranti cui possono essere o revocate o non concesse cittadinanza e residenza permanente, i delinquenti di Stato pretendono ed i minchoni medi si sottometteno e si prestano a qualunque demenza e crimine vengano richiesti e, ovviamente, coperti da chi li pretende.

...Terrorismo di Stato, in salsa canadica!

Martedì 28 settembre 2010, alle 9:00, anzi prima, vado all’Immmigrazione, lì previamente formalmente convocato da Andy Hsu, Enforcement Assistant del Canada Border Service Agency, Pacific Region Enforcement Centre. Vado coi bagagli dato che aveva già insistito con la solita pretesa ossessiva, quanto apertamente illegale: “O compri un biblietto per l’Italia o ti arrestiamo e deportiamo.” Come già gli avevo annunciato con email, pure pubblicata sui miei siti, gli mostro la loro legge, gli mostro che ho i soldi per raggiungere un paese dove sarò automaticamente ammesso, avendo un valido passaporto italiano. Lui mi dice di andare nel corridoio e che sarò arrestato in cinque munuti.

Sono così scemi che magari sperano che fugga. Vado nel corridoio, anzi in prossimità degli ascensori dove c’è il mio bagaglio, ed aspetto. Aspetto probabilmente più di un’ora. Sì, speravano che sarei scappato. Restò lì a leggere qualcosa. Andy Hsu passa almeno una volta, in cui mi lancia una strana occhiata. Stavo pulendo gli occhiali. È l’ultima volta che lo vedo. Sperava[no] in qualcosa. Sono proprio scemi. No, anzi. Sono gentaglia così e, naturalmente, pensano che siano tutti come loro.

Mentre aspetto, scopro che una giacca (tipo a vento) o giubbotto, non di grande valore ma nuova e che avevo trovato e lavato e poi usato, che volevo usare per il viagio assieme ad un maglione, ha ben radicati nidi di bed-bugs nel cappuccio. Cerco di rimuoverli ma è impossibile. La butto via in un cestino dell’Immigrazione. Vano tenere una cosa inutile, tanto più che avrei dovuto essere arrestato di lì a pochi minuti. Ma anche mi avessero liberato, più economico andare dai preti a comprarne un’altra oppure rischiare nel caso, dopo la deportazione, avessi raggiunto climi freddi.

Compare uno che sembra Rambo da come è conciato. No, è l’uniforme di quella squadretta-“rimozioni”, come vedo poi quando io sono nelle celle poco più in là.

È Marko Balenovic, uno slavo, un altro slavo, visto che, non a caso, le stalking gangs organizzate dal CSIS&“Refugee Board” [“Semo quelli delli rifujati... ...Ve dovemo chiede’ d’organizza’ linciaggi contro uno dei nostri clienti... ...Dovere NATO-internazionalista...”: è il Canada!] erano piene pure di slavi, russi e para-russi, cui venivano garantiti vantaggi immigratori in cambio delle loro cooperazione maniacal delinquenziale con le attivita manical delinquenziali delle Polizie Segrete Canadesi (CSIS, “Immigrazione”, “Refugee Board”, nel mio caso) e NATO ed oltre. Non dev’essere un caso che vari religiosi che collaborano con le Polizie Segrete canadesi siano americani (...sennò li linciano e cacciano via, o così credono i debosciati e le debosciate che collaborano). Andy Hsu era ed è un Enforcement Assistant. Marko Balenovic era ed è un Enforcement Officer, visto che era ed è della squadretta che girava e gira per quegli uffici con giobbotto antiproiettile e pistola ben visibile. Una sceneggiata! ...per impressionare gli impressionabili.

Canadian policies [procedure]...

Lo avete visto quel froscione dell’aviazione canadese, con l’aria maschia, che venne poi arrestato, nonostante fosse stato pilota delle Regina quando visitò il Canada, per omicidi e pure maniacali. Qualche quotidiano lo ha poi pubblicato pure in foto, sempre con aria maschissima, che indossava reggiseni, rubati sembrebbe, e con gli stessi o si fotografava o si faceva fotografare. ...Canadesi... Doveva certo essere di qualche Polizia Segreta. Il materiale umanoide d’esse è di quel genere. ...Un tipico soldato!!! ...Un soldato segretissimo. Maniaco e delinquente, non devon poi essere riusciti a coprirlo. A volte succede, per crimini comuni e non di Stato. ...Potrebbe succedere ad un qualunque Marko Balenovic. Aspetti e psiche sono di quella tipologia.

Il Marko mi fa entrare in una stanza differente da quelle solitamente usate da Andy Hsu. Mi chiede di predendere pure i bagagli e di portarli lì. Penso che sia arrivato il momento dell’arresto. ...Oh, che emozione... ...Non me ne fotte un cazzo.

Bleffa. Con sorriso sornione, di chi affermi l’ovvio ad un neofita, mi ribatte che l’unico paese in cui sono autorizzato ad entrare è l’Italia. “E chi vuoi che ti accetti più, con un ordine di rimozione dal Canada?!” Mi immagino il passaporto coperto di timbri. Allora perché la loro legge dice che uno che abbia mezzi sufficienti può volontariamente raggiungere qualunque paese in cui l’entrata sia autorizzata? Lui mi dice che se l’entrata non è previamente e chiaramente autorizzata, non si può essere sicuri che l’entrata sia davvero autorizzata. La cosa mi sembra un po’ forzata ma, lì per lì, astrattamente plausibile a voler sofisticheggiare di questioni legali. Inoltre, non essendo un grande viaggiatore, né avendo mai avuto ragione di occuparmi dei dettagli amministrativi alle frontiere, mi limito a ribattere che senza passaporto, visto che lo hanno loro, non è che uno potesse far domanda per un visto preventivo. Nella mia mente ci sono i paesi della UE dove si va senza passaporto, posti dove vogliono previamente un visto e posti dove il visto viene dato alla frontiera. Dopo la certificazione della Polizia di Stato (la sua nota all’Ambasciata Canadese di Roma che continuava a chiedere che producessero qualcosa contro di me per avere una qualche base legal-formale o per neppure esaminare il mio Refugee Protection Claim, o per respingerlo con una qualche credibilità; e la Polizia di Stato li ha mandati affanculo e pure con una calunnia addizionale contro di me ordinata dai carabinieri_terroristi, che potendo io dimostrare che è una caluunia ho potuto e posso così dimostrare che ci sono centrali di produzione permanente di calunnie contro di me) che non ho precedenti penali posso pure fottermene di informazioni segrete calunniose orchestrate da Polizie Segrete dei Carbinieri ed altre. Infatti, la Polizia di Stato ha certificato, indirettamente, che non sono né ricercato né sospettato di nulla, aspetti rilevanti, secondo la legge formale canadese per poter chiedere di andare dove voglio.

Ah, prima e durante la sceneggiata, insisteva che sono una persona intelligente. Sono tecniche di sbirri quando stanno cercando di fotterti. Noto la cosa. Comunque, astrattamente, da un punto di vista scientifico, quello che diceva poteva essere, lì per lì, plausibile. Per cui, nonostante quella tecnica da sbirro furbastro e l’aria di uno che sta recitando, preferisco non assumere un atteggiamente di contrapposizione. Mi muovo cautamente.

Dunque, riaffermo, come già in precedenza, e come già pubblicizzto sui miei blog, che sono disposto a lasciare immediatemente il Canada [sono andato lì coi bagagli!] ed a mie spese, come da loro legge formale. Ma loro non vogliono. Pretendono, come da ordini CSIS-NATO, che sia obbligato ad andare in Italia. Anzi, vogliono che ci vada volontariamante. Si devono credere dei grandi geni della persuasione. Devono avermi fatto aspettare sia perché speravano che scappassi che perché dovevano aver chiesto nuovamente al loro governo centrale, alias alle polizie segrete centrali e non dovevano avere avuto ordini chiari o non dovevano essere sicuri. “Certo, l’informazione segreta è che pericolosissimo ed abbiamo l’ordine segreto di linciarlo a tutti i livelli e di obbligarlo a tornare in Italia. La Polizia italiana dice che è incensurato e che non è né ricercato, né sotto indagine, né sospettato di nulla e lui si presenta qui con bagaglio ed chiedendo di andarsene in Messico dopo averci mostrato la nostra legge e che ha i soldi per comprarsi il biglietto...” Avevano pure bisogno di predisporre un “giudice” sicuro per la conferma dell’arresto per deportazione. Un “giudice” onesto mi avrebbe rilasciato con consegna a me del mio passaporto ed autorizzazione a raggiungere qualunque Stato raggiungibile senza visto. Sarebbe stato l’unico rilascio serio, perché avrebbe evitato un eventuale rilascio con l’Immigrazione libera di ripetere il giochetto ed i giochetti. Ma lì sono chekisti, anzi peggio, anglo-canadici! Volevano comunque essere sicuri che io capitassi sotto un “giudice” al 200% ai loro ordini.

Visto che insisto, pur dicendogli che la tesi dell’autorizzazione preventiva ed esplicita potrebbe anche essere plausibile a voler sofisticheggiare, Marko Balenovic mi dice una cosa strana. Mi dice che se torno lì con l’autorizzazione all’ingresso di un consolato, lui mi dà il passaporto [dunque, se volevano, potevano dare indietro il passaporto! ...In realtà possono pure, loro dellUfficio Rimozioni, non eseguire gli ordini di “rimozione” dunque con implicita autorizzazione a rimanere in Canada come residente permanente, come tutti o molti lì sanno] per poi fare domanda per il relativo visto. Io avevo già controllato che per l’America Latina in genere non occorreva il visto, ma lo avevo interpretato come che non occorresse un visto preventivo. Mi immaginavo un visto gratuito ed automatico dato alla frontiera.

Gli chiedo l’indirizzo del consolato brasiliano. Lui vuole strappare e darmi tutta la pagina dei consolati. Gli dico che non occorre. Inutile che mi metta fare il giro. Me ne basta uno. Gli dico che torno poi subito a dirgli che m’hanno detto.

Mi da appuntamento, a voce, per venerdì 1 ottobre 2010. Spera scappi. Non sanno che fare con uno che capisce le procedure burocratiche e si conforma, pur insistendo sui suoi diritti e restando fermo su di essi.

Vado al consolato brasiliano. Dico loro che ho una richiesta stramba dall’Immigrazione. Dico che quelli vogliono una loro dichiarazione che sono autorizzato ad entrare in Brasile. Strabuzzano gli occhi. Trattano solo con canadesi od altri che necessitino di un visto. Io ho solo l’ID del Refugee Board. Non ho neppure il passaporto visto che lo ha l’Immigrazione. Mi dicono che devono sentire il Console Generale e che mi contatteranno. Torno frustrato da Marko Balenovic, con quella sua aria da frocio rambizzato, e gli riferisco, dicendogli che è improbabile che mi rispondano. Infatti, gli chiedo se vuole arrestarmi subito. Lui non ha evidentemente ordini precisi, o non li ha capiti bene. Per cui vuol rinviare. Mi dice che visto che sto conformandomi... È solo sceneggiata.

Uscito di lì, controllo. In America Latina, non c’è visto, con un paio d’eccezioni, per chi abbia passaporto italiano. Pure in altri posti, non occorre il visto. Per cui l’ingresso è automaticamente autorizzato. Mando un’email a loro delle “rimozioni” con la cartina degli Stati del mondo accedibili senza visto col passaporto italiano e confermo la mia posizione, sì che venerdì sappiano già che fare. Naturalmente, pubblico copia di tutto sui miei siti. Scrivo pure al Consolato brasiliano, spiegando il caso e dando loro il telefono degli uffici di Andy Hsu e Marko Balenovic.

In pratica, in Canada, la loro legge formale serve solo per delinquenti con costosi avvocati che possano inondarli di ricorsi. Per gli altri, soprattutto per chi onesto si veda respinte le domande o d’asilo o simili (i criminali sono arruolati nelle stalking gangs delle Polizie Segrete canadesi ed hanno dunque poi asilo od immigrazione garantiti, in un modo o nell’altro), vale la legge inventata e del menga che uno venga rispedito al paese d’origine. Anche lì, ci sono i furbi che riescono a convincere il comandante dell’aereo che sono in pericolo, che poi ritornano in Canada (sebbene non potrebbero senza aver pagato la precedente deportazione e senza l’autorizzazione scritta del Ministro competente) e, nonostante precedenti penali in precedenza giudicati gravissimi ed ostativi, vengono poi accettati come residenti permanenti dall’Ufficio Rimozioni che autonomamente decide di soprassedere alla rimozione, alias alla deportazione. ...Prodigi della “legalità” canadica!!!

Venerdì 1 ottobre 2010, come d’accordo, vado lì alle 9:00, anzi un po’ prima, e Marko m’arresta. “O vai volotariamente in Italia, o ti arrestiamo.” Andare volontariamente in Italia pregiudicherebbe, almeno moralmente, una mia richiesta di asilo altrove. Differente essere deportato ed andarsene subito, col passaporto se te lo danno o senza se non te lo danno. Con le frontiere aperte, anche se un Francia c’è Sarkozy dopo Chirac... Ma pure in altre direzioni le frontiere sono aperte.

Mi arresta. Del resto, sono andato lì col bagaglio. Solite celle del Genesis Security Group, che è la stessa ditta che gestisce le celle dell’aeroporto ed i trasporti. Le celle lì sono attaccate all’Immigrazione. Per cui, uno viene passato dall’Immigrazione agli agenti della Genesis. Solito traffico di arrestati e di liberati. Quella è un’area di transito per chi abbia a che fare col personale dell’Immigrazione, “giudici” inclusi. Nel pomeriggio viene a dirmi che mi deportano a Taipei dato che son venuto da lì. Originale. Magari mi dessero il passaporto a Taipei, penso. Non è comunque il caso di far domande.

Evidentemente, le deportazioni, o parte di esse, sono a carico delle stesse compagnie aeree. Infatti, Marko Balenovic contatta, non immediatamente, solo il 4/10/2010 alle 17:18:56 sembrerebbe, le China Airlines.

Teresa Kwong, delle China Airlines, risponde subito, alle 18:27. La risposta è un classico esempio di idiozia ultra-xenofoba cinese. Di frequente, nelle Cine (Taiwan inclusa) m’era capitato di vedere ed udire cinesi che vedendo qualcuno che parlava con me in inglese e, sapendo o supponendo che ero di prima lingua italiana, commentava, in cinese: “Ma com’è che parli con lui in inglese se è italiano?” Idem, l’email di Teresa Kwong a Marko Balenovic: “(...) we’re unable to communicate with passenger, if he is Italian, (...).” ...Se pure chi opera sull’estero ed all’estero ha una tale ignoranza di base!

Marko Balenovic, che evidentemente era stato piuttosto confuso nella sua prima email (che infatti viene omessa nei materiali dati poi al “giudice”), e che deve implementare ordini piuttosto confusi del CSIS-NATO, precisi solo nella fissazione paranoica “deve essere obbligato a rientrare in Italia”, chiarisce subito, in una email delle 18:50:18: Taipei deve accettarlo secondo la convenzione di Chicago, dato che è di lì che è venuto in Canada; sono sicuro [e lui come fa a saperlo, se non per contatti diretti tra Polizie Segrete?!] che a Taipei vogliono che voi lo trasferiate a Roma-Fiumicino od altro luogo in Italia; il soggetto ha un passaporto valido [cazzo, prima doveva averlo omesso se l’altra aveva supposto che io fosse un generale dell’oscurità in catene!]; è correntemente detenuto e lo vogliamo rimosso al più presto; non è potete arrangiargli il viaggio VancouverBC-Toronto-RomaFiumicino per esempio con la Air Canada?

Mi portano, la sera, nelle celle della Genesis annesse all’aeroporto internazionale di Vancouver BC. Il solito. Senza nulla, appena passato dall’Immigrazione alla Genesis. Uno può avere solo pantaloni e t-shirt o camicia. Tolti persino i fazzoletti. Anche le scarpe senza stringhe, perché la punta è rigida. Deve esserci del metallo dentro, realizzo, dato che suonano ai controlli degli aeroporti. Mentre non suono, se mi tolgo pure le scarpe. Anche delle stringhe o listelle di stoffa penzolanti dalle tasche laterali dei pantaloni vengono tagliate. Leggo libri interessanti, all’aeroporto. Invece, nelle celle attaccate all’Immigrazione e durante i trasporti, uno deve restare a far nulla.

Lunedì 4 ottobre 2010, mi portano a Vancouver downtown, suppongo per il “giudice” che deve confermare o meno l’arresto. Tuttavia non si vede alcun avvocato, dunque non è per quello. Scopro il motivo quando è l’ora di chiusura, forse attorno alla 16:00. Mi chiedono chi sia l’agente m’abbia in carico. No, non c’entra nulla. Il motivo d’aver sprecato la giornata lì è che mi portano in un centro di detenzione “pubblico”, credo della provincia della British Columbia. In pratica, una prigione dello Stato locale, essendo il Canada un dominio autogovernantisi della Corona britannica ed organizzato su base federale. È dunque uno Stato federale i cui sotto Stati sono chiamati province (precisamente, 10 province e 3 territori). La prigione “pubblica” è comunque la meno distante. Altri devono farsi un 3 ore in più, soprattutto di parcheggio, visto che i trasporti dalla ed alla prigione più distante non sono diretti ma con parcheggio in quella dove sono io. Chiedo ad uno che fa il viaggio solo per recuperare i suoi vestiti ed essere rilasciato. Mi dice che è un ambiente sicuro.

Registrazione, vestizione con gli abiti delle prigione (una tuta rossa, mutande a pantaloncino, calzettoni scuri e scarpe di tela bianche), colloquio con un comandante delle guardie o simile, visita medica, e pure una psicologa credo perché chiede se uno abbia propensione al suicidio. Tutti gentilissimi. Sono divertito ma faccio l’indifferente gentile. Danno poi una confezione cena che si mette in un microonde nel reparto e si mangia. Infatti l’orario delle mensa della prigione è attorno alle 16:00, mentre la Genesis downtown non fornisce la cena dato che la dà più tardi, ad un’ora più normale della prigione pubblica, a chi sia nelle celle dell’aeroporto.

Martedì 5 ottobre 2010, mi chiamano alle 6 del mattino per andare a Vancouver. Mi avevano pure fatto raccogliere tutto, come stessi per andare via per sempre da quella prigione. Invece ritornerò la sera e dovrò richiede tutto o quel che, nella sezione, riescono a mettere assieme. Al mattino presto, danno un pacco colazione che si mangia con equilibrismi in uno stanzone affollato di detenuti in attesa di trasporto. Essendo una prigione, la maggioranza non è dell’Immigrazione ma dello Sceriffo.

La mattina, parcheggiato nelle celle attaccate all’Immigrazione, mi chiama l’avvocato d’ufficio, che viene sempre dato a tutti coloro siano senza, per le conferme o meno dell’arresto. Mi dice che gli hanno detto, o così ha capito dalle carte gli sono state date, che mi sono rifiutato di lasciare il Canada. Gli spiego come stanno le cose.

Al pomeriggio, dopo più di quattro giorni di arresto (la legge loro prescrive che non possano essere più di 48 ore, senza conferma del “giudice”), compaio davanti ad un “giudice”. Il “mio” avvocato stava parlando di soldi con quello del governo. Si sforza a salutarmi, dato che lo ho salutato. Riserverà le formalità ai paganti. Appena il “giudice” entra [sono l’unico che si alza in piedi; mi immagino i film americani... ...ma lì è il Canada!], M. Tessler, ha l’aria del segaiolo pavido e viscido. Balbetta di 48 ore. Io dico che sono 4 giorni. La legge loro prescrive che se uno ha mezzi sufficienti e ci siano paesi dove la sua ammissione sia autorizzata (con passaporto italiano, pressoché tutta l’America Latina, più gran parte d’Europa e pure altri paesi garantiscono l’ammissione senza visto, dunque automatica, “autorizzata”), uno possa scegliere e l’Immigrazione accettare la scelta. L’Immigrazione ha gli ordini del CSIS-NATO che devo essere obbligato a rientrare in Italia. L’avvocato dello Stato canadese ha l’ordine CSIS-NATO che io debba essere obbligato a rientrare in Italia. Per cui conclama che la procedura corrente è che uno sia rimandato al paese d’origine per evitare palleggiamenti, nel caso uno non fosse poi accettato dove s’è recato volontariamente; per cui farebbero ciò nello stesso interesse del soggetto (tipico argomento paranoico!), dice lui. Balle, tanto per dir qualcosa. Il “giudice”, che è poi, stile chekista, anzi anglofono, un “Member of the Immigration Division / Commissaire de la Section de l’Immigration”, arrossisce, assume un’aria confusa, dice che non sono cose di sua competenza, e che, visto che io coopero (dato che io dico che non me ne frega nulla d’essere liberato se poi non mi fanno comprare un biglietto ad esempio per il Messico, che è il luogo più prossimo senza visto, o Brasile o altro se occorra un luogo d’uscita dal Messico; sottolineo pure che gli argonenti dell’avvocato del governo sono terrorismo di Stato contro la loro stessa legge formale), ...conferma l’arresto per deportazione (o, suppongo, per partenza volontaria verso dove vogliono loro se uno, spaventato, fosse poi così fesso da comprarsi volontariamente un biglietto per dove loro vogliono vada). L’avvocato va via senza salutare nessuno, neppure me, mentre M. Tessler sta scrivendo la sentenza [il suo ordine d’arresto; prima non ne ho avuti] che viene a darmi. Ringrazio. L’avvocato del governo, che non ringrazio, tiene aperta la porta mentre esco ammanettato per riscendere al piano delle celle [il settimo; quello doveva essere forse il sedicesimo]. Mi ha portato, è restato lì e poi m’ha riportato indietro lo stesso cinese che mi accompagnerà all’aereo per la deportazione.

Succede una cosa strana quando torniamo alla prigione, 2 (io incluso) per restarci e 2 in transito per raggiungere quella più distante. Il giorno prima, i due nuovi dell’Immigrazione (almeno nel nostro trasporto) eravamo stati io ed un [credo] messicano (sentii che alla reception diceva che aveva studiato in una università messicana). Ci avevano messi nella stessa cella. In quella prigione, o sezione della prigione avevano solo celle per due credo, due solidi e stabili letti come a castello, metallici ed incastonati nel muro e con un materasso. La prima esperienza, oltre che all’aeroporto, di letti senza bed-bugs (pulci o cimici o altro? ...Non avendo mai avuto esperienze nel settore, prima del Canada, non ho idea di come si chiamino né di come si chiamino specificatamente quelli o quelle da letto).

Non avevamo conversato. Alternava qualche momento di cordialità a lunghe introversioni, come stesse parlando con sé stesso. Lo avevo colto in qualche scambio, ma breve, in spagnolo con altri detenuti, non ho idea se dell’Immigrazione o altri. Così, in pratica, c’eravamo ignorati, pur nella stessa cella. Quando, la mattina, mi avevano chiamato, avevo supposto avessero chiamato pure lui. Non avendolo poi visto... Lo avevo visto poi arrivare, cosa alquanto sospetta, a metà mattina, dunque con un trasporto speciale ed inusuale suppongo, nelle celle affianco all’Immigrazione ma non nella mia. Lo avevano fatto parlare con vari, di cui due, uno ed una, giovani, che sembravano di qualche Polizia Segreta. Ad un certo punto avevano chiamato una interprete ispanica. Avevano pure perquisito, mi sembrò senza risultato, una sua busta di carte. Al momento del ritorno alla prigione, c’era pure lui, ma in una celletta separata del furgone. Del resto quella grande era già coperta da quattro, due per la prigione più distante, io ed uno nuovo, uno della Lettonia che non avevo capito bene che ci stesse a fare. Gli avevo solo chiesto se si sentisse lettone o russo. M’aveva detto lettone.Era arrivato a Vancouver da qualche altra parte. Forse dall’Asia. Gli avevano trovato qualcosa, una carta di credito se m’ha detto bene, con nome d’altri. Lui aveva chiesto d’andarsene via subito ed aveva pure il biglietto per qualche altro posto. Non avevo chiesto. Né lui m’aveva detto granché. Ad un certo punto gli avevano chiesto, nelle celle annesse all’Immigrazione, che interprete avessero pututo trovargli. S’erano accordati per uno di lingua russa. Aveva l’aria mite, ma non significa nulla. Era restato un giorno in quella prigione poi era sparito, cosa che significa che due mattini dopo l’avevano chiamato ed era stato o rilasciato, o deportato, o mandato in luogo di detenzione differente. Altri li avevo poi reincrociati. Lui mai più.

Il messicano o, comunque latinamericano, già durante il trasporto, pure all’inizio dello stesso, di tanto in tanto, con aria ragionevole ma ferma chiedeva, ingenuamente, di discutere coi trasportanti (autista e capo-trasporto) perché non voleva raggungere quella prigione. Al momento dell’arrivo, s’era piantato, nel senso che s’era rifiutato di scendere. Per cui avevano fatto scendere noi quattro del cellone e passato il problema di lui, nella celletta tra il cellone e lo spazio autista e capo-trasporto, a quelli della prigione. Avevo visto il personale della reception calzare guanti di gomma (quelli che usano per perquisire) e dirigersi agguerriti, o forse solo un po’ scazzati, verso l’esterno, dunque per tirarlo giù dal furgone. Non ne avevo poi saputo più nulla né l’avevo più visto. Del resto, tornato inaspettato alla sezione che avevo lasciato “per sempre” la mattina, la cella non c’era più, nel senso che era stata allocata ad altri, ed ero stato messo con un vecchio coatto pancione, droga ed alcool, pieno di manie ma gentile. Chiarito che poteva fare di luce e televisione quel che voleva, non c’erano problemi. Se qualcosa gli dava noia me lo diceva ed io gli dicevo che aveva ragione. Lui era felice ed io pure. M’ero procurato qualche libro e potevo leggere, volendo, con la luce dell’illuminazione esterna che filtrava da una piccola grata coi buchi affianco al letto.

In effetti, all’esterno non sembrava un carcere. Non aveva il classico muro esterno con le guardie. Dalle finestre delle celle era impossibile passare, anche uno avesse rimosso, cosa improbabile, vetro e grata. Pure la classica “aria” non c’era. C’era un passeggio coi muri alti e coperto da una grata col cielo sopra, annesso allo stanzone comune. Anche da lì, non è che uno potesse evadere. L’organizzazione antievasioni sembrava perfetta, incorporata ad un’architettura forse non formalmente oppressiva ma, mi sembrava, perfetta per prevenire fughe. Non v’erano neppure sbarre. Vetro, grata e piccole dimensioni della fessura-luce che dava direttamente sull’esterno le rendevano inutili. Spogliati di tutto, e vestiti dal carcere, le stesse strumentazioni per mangiare erano non metalliche. V’erano delle macchine, usabili con tessera-identità&soldi (per chi ne avesse sulla stessa), per comprarsi delle mangerie (soprattutto dolciumi, se ben ricordo; non è che avessi controllato bene, non avendo intenzione di spendere nulla; credo che sulla mia tessera non ci fossero soldi non avendo io chiesto di mettercene né so se sarebbe stato possibile). V’erano pure vari telefoni sui vari piani, sebbene usabili solo da chi avesse, oltre ai soldi, ed a parte alcuni numeri gratuti e privacy-garantita (dicevano), previamente dato la propria voce ad un archivio che serviva ad identificare eventuali telefonate poi eventualmente ascoltate tra la massa delle registrate. Dovevi farti schedare la voce. Poi potevi usare il telefono se avevi soldi sulla tessera. V’era chi stava in continuazione al telefono. Saranno stati ricchi o spendoni o con interlocutori prossimissimi alla prigione. Od avranno telefonato a numeri gratuiti... V’era una successione di fasce orarie con non lunghe chiusure e poi riaperture delle celle, e con parziali turnazioni tra due blocchi di celle, fino alla chiusura notturna. I tre pasti erano concentrati in meno di una decina d’ore. Una squadra di pulitori, pagati sul dollaro o dollaro e mezzo l’ora [al giorno, nella prigione più distante, a quel che mi disse un anziano salvadoregno delle sinistre già guerrigliere, a quel che diceva, ch’era nel trasporto a quattro, con un cinese egualmente della prigione più distante], aveva aperture più lunghe, per pulire e per curare la distribuzione dei pasti ed altro. Le celle, 30, su tre piani, terreno incluso, erano come un grande quasi cerchio costruito attorno ad una piazza coperta e coi tavoli sia per mangiare che altro, su cui le celle s’affacciavano. Una doccia per piano era coi vetri non del tutto trasparenti visibili dalla guardia [a volte pure femmina] che stava come sovrastando un grande banco in muratura con computer e cassetti con cose varie (sapone, rasoi usa e getta, etc.). Di tanto in tanto, un altoparlante sputava cose incomprensibili soprattutto dall’interno delle celle. Ogni cella aveva il vaso del gabinetto ed un piccolo lavandino, entrambi d’acciaio inox. Il tutto robustissimo, senza pezzi rimuovibili e continuamente controllato per verificare che funzionasse e che non vi fossero ostruzioni. Idem, le celle di Genesis. Anzi, quelle di Genesis dell’aeroporto permettevano di leggere pure con la luce spenta, dato che la porta aveva un vetro più grande e fuori v’era la luce sempre accesa (meglio, lì si leggeva in modo più confortevole con la luce interna spenta, dato che, in ambiente del tutto senza fineste, tendeva ad offendere gli occhi). Per cui anche uno avesse avuto un compagno di cella e lo stesso avesse voluto la luce spenta... Nelle celle doppie di Genesis all’eroporto non c’era la televisione, che invece v’era nell’area comune aperta dalle 6:00 alle 23:00. V’era in dei celloni. Nelle celle affianco all’Immigrazione non v’erano del tutto televisori. Erano celle di transito diurno. Credo che nell’edificio dell’Immigrazione vi fossero pure delle celle di Genesis al piano terreno (così mi disse qualcuno), ma in genere non usate. Saranno servite per delle emergenze, se v’erano davvero.

Io non lo so, dato che sono in detenzione (amministrativa per deportazione) e certo nessuno mi dice nulla, né io faccio [inutili] domande...

...Mercoledi 6 ottobre 2010, confermano il viaggio, per deportato non accompagnato, per sabato 9 ottobre 2010. Partenza il 9 ottobre alle 1:55 dall’YVR-Vancouver. Arrivo a TPE-Taipei alle 6:05 del 10 ottobre. Partenza da TPE-Taipei alle 8:15 con scalo a Nuova Dheli e, poi, con lo stesso aereo, a FCO-Fiumicino alle 18:40 di domenica 10 ottobre.

Una trentina di ore di viaggio, incluse le due brevi soste. A Taipei, c’era una wireless gratuita vicino al banco delle China Airlines dove mi hanno fatto aspettare. A Nuova Dheli, invece, ho aspettato, vigilato da uno dell’Immigrazione indiana, all’imboccatura del tunnel che conduceva all’aereo che, svuotato dei passeggeri, è stato rapidamente ripulito e poi ririempito di passeggeri e con nuovo equipaggio. Mi son comunque potuto sbarbare usando una spina dell’elettricità che era lì a pochi metri. Anche a Taipei, mentre aspettavo all’uscita dell’areo. All’arrivo a Taipei, inizialmente dissero che “a constable” sarebbe venuto a prendermi. Poi, trattandosi di deportazione non criminale, di soggetto non pericoloso e non accompagnato, una hostess mi accompagnò al banco della compagnia aerea. Del resto avevano loro il mio passaporto. Non è che avesse alcun senso cercare di andarsene.

Venerdì 8 ottobre 2010, poco prima delle 16, così salto la cena che era in corso di distribuzione, mi chiamano “per rilascio”. Lungo viaggio in furgone. È uno più grande del solito, forse. Stavolta, sono io che sono nella celletta. In quella grande ci sono delle ragazze forse del Sri Lanka. Infatti, il lungo viaggio è per portare loro, e pure un furgone che segue, non so se egualmente di femmine, in un carcere che non so. Poi viaggio lunghissimo verso l’aeroporto, saprò dopo. A volte mi sembra che il furgone giri in circolo. Si vede che l’autista non trovava la strada... o sono illusioni ottiche. Quando lascio il carcere mi dicono che è per il rilascio. Io non faccio domande. In linguaggio burocratico, rilascio può significare anche solo rilascio da quel carcere. Unico particolare, ma non decisivo, quando lascio il carcere mi viene cambiata l’uniforme. Da rossa a grigia. Tuta grigio chiaro. All’arrivo all’aereoporto, mi viene detto che è per deportazione. Solo dopo mi si dice che è verso l’l:30. M’ero già messo a letto per leggere prima di dormire e dopo doccia, poco prima della chiusura delle 23:00, dato che non avevo fatto domande sul quando, quando m’hanno chiamato per scegliere quello che volevo indossare etc.

Sabato 9 ottobre 2010, verso l’una di notte. Vestito coi miei vestiti e scarpe, ma senza nulla nelle tasche, ed ammanettato vengo portato verso l’aereo, da una guardie cinese di Genesis. Mi chiede di coprire le manette col maglione. Gli dico che non me ne frega nulla. Per cui le lascio ben visibili. Al controllo di polizia mi smanetta solo quando passo sotto il metal-detector e mi riammanetta appena passatolo. Tuttavia, mi smanetta prima d’arrivare all’imbarco. Si vede che ha più vergogna lui che io, cui appunto non ne frega nulla. All’imbarco mi dà le mie cose, soldi inclusi. Ma non il passaporto che viene dato, in busta con dei fogli, al personale dell’aereo. Già nell’area celle mi aveva chiesto cosa volessi portare a mano e cosa loro avessero dovuto consegnare al check-in che evidentemente hanno fatto loro senza di me.

Domenica sera 10 ottobre 2010, arrivo a Roma. Vengo prelevato, senza manette naturalmente, come già ero senza durante il viaggio e trasbordi, da uno della Polizia di Stato che mi accompagna al posto della PS di Fiumicino. Posto tranquillo e disteso. Controllano alcuni stranieri suppongo arrivati. Poi, altri ancora. Mi chiedono della deportazione. Dico che è a seguito di una pratica respinta con l’Immigrazione canadese. Evito di dire “asilo [politico]. Me lo dice il funzionario che evidentemente lo ha nei fogli gli sono stati consegnati. Gli dico che è un caso particolare. A lui non ne frega nulla. A me neppure, di parlarne. Mi dice che faranno i controlli quanto prima che non ci siano problemi e poi posso riavere il passaporto. Mi dice poi che quel quanto prima significa un’ora. Splendido! Intanto, uno mi chiede se mi siano mai state prese le impronte. Ad ogni modo, le riprende, sia elettroniche che con l’inchiostro se non ricordo male. Non mi ricordo precisamente se pure con l’inchiostro, o solo una. O forse no. Me le hanno riprese così tante volte, pure in quell’arresto per deportazione e poi alla prigione “pubblica” sempre in attesa di deportazione... Prima di quelle elettroniche, mi fa lavare le mani ma, appunto, non perché le avessi sporche d’inchiosti. Solo per poter prendere meglio le elettroniche.

Appunto, forse in un’ora fanno tutto. Mi ridanno il passaporto. Posso andare dove voglio. Me ne vado subito. Domenica 10 ottobre 2010 notte.